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Omicidio al Cairo

Impegno civile e suspense in un thriller tratto da una storia vera

Il Cairo, Gennaio 2011. Durante le indagini sulla morte di una cantante, l’ufficiale di polizia Nouredin (Fares Fares) scopre alcune sospette relazioni a carico di un noto uomo politico. Mentre i giovani manifestano nelle strade per rivendicare il rispetto della democrazia e dei diritti, una giovane cameriera sudanese (Mari Malek), testimone dell’omicidio, è braccata da chi vorrebbe insabbiare l’accaduto e l’operato di Nouredin incontra una serie sempre crescente di ostacoli. Portare alla luce la verità sulla vicenda, a costo di subirne ogni conseguenza, diventerà il suo obiettivo.

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Svedese di origini egiziane, il regista Tarik Saleh (Metropia) con Omicidio al Cairo (The Nile Hilton Incident, 2017) costruisce un thriller ispirato a una vicenda di cronaca dalle forti implicazioni di denuncia politica, che offre buoni spunti di riflessione soprattutto nei momenti in cui riesce a dialogare con il tessuto metropolitano della città egiziana. Il Cairo in cui si ambienta il film è una distesa di cemento plumbea e inquinata, svuotata di qualsiasi segno o monumento caratteristico, anonima e sospesa tra un passato glorioso al quale sembra incapace di ispirarsi e un futuro ancora troppo temuto dalla classe dominante. L’inizio del 2011 vede non a caso nella capitale egiziana l’avvio delle proteste e dei tumulti che sarebbero poi esplosi nei fatti di Piazza Tahrir e nella cosiddetta Primavera Araba. I sussulti della società civile, raccolti dai reporter per le strade e rilanciati dalla televisione, tracciano così la fondamentale cornice dentro cui si inscrive la vicenda del protagonista, con efficacia rappresentata come inevitabile corollario di uno stato di diritto calpestato, a tutti i livelli, dal malaffare e dalla corruzione. Meno convincente nell’economia generale del film è il ricorso ad espedienti e stilemi tipici del thriller più convenzionale, con svolte narrative che si susseguono con troppa rapidità e qualche inutile personaggio di contorno, non perfettamente funzionale alla narrazione della vicenda e caratterizzato con eccessiva approssimazione.

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Per il pubblico italiano la vicenda della giovane cameriera sudanese minacciata nella sua sopravvivenza perché ha visto quello che non doveva vedere e scoperto quello che non doveva scoprire, non potrà non rinnovare lo sdegno per la morte del giovane Giulio Regeni. Il suo è un caso internazionale che ha portato all’attenzione del mondo le profonde contraddizione interne al sistema politico e istituzionale egiziano, le stesse contro cui il film di Tarik Saleh si scaglia duramente. L’orizzonte dell’insabbiamento e della violazione dei diritti sembra condensarsi nell’effige del presidente Mubarak che campeggia beffarda all’interno dell’inquadratura in diversi momenti salienti del film. Alla prospettiva di una sconfitta sembra, in ultima analisi, arrendersi il poliziotto Nouredin nel controverso finale del film. Un finale amaro, in cui emerge la delusione del regista verso le promesse di rinnovamento che la Primavera Araba aveva alimentato e che non è riuscita a mantenere.

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