Moro – Ulderico Pesce

moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia – Ulderico Pesce

I lettori perdoneranno l’infrazione che sta per compiersi. Questo articolo comincia con un ricordo in prima persona, scorretto giornalisticamente, necessario però a rendere un’idea che è propria dello spettacolo di Ulderico Pesce sul caso Moro: certe vicende bisogna prenderle sul personale, perché la Storia occultata, le verità non dette, riguardano singolarmente ognuno e non genericamente «tutti».

Immaginate un bimbetto che passeggia per i corridoi del Liceo Archita di Taranto, lo stesso frequentato da Aldo Moro, e che si ritrova al cospetto di un capoccione di bronzo con l’espressione gentile e la faccia tranquilla: si chiede chi sia quell’uomo, cosa nasconda quel nome che tante volte ha sentito rimbombare in tv e giornali. Sono passati poi tanti anni, ma la verità sulla fine di quel servitore dello Stato, decisa a tavolino dietro le porte chiuse della politica, bisogna ancora andarsela a cercare nei teatri, perché fuori dalla sala dei guitti è tutto confuso, silenzioso e assordante.

Oggi passeggiando per Roma, incrociando Via Fani, un pezzo di marmo suggerisce di abbandonare quella convinzione adolescenziale per cui avere vent’anni negli anni Settanta sarebbe stato «figo»: vivere in quegli anni avrebbe rappresentato un richiamo alle armi della responsabilità, proprio come oggi.

Entrando al Teatro India, sulla scena, troviamo solo una decina di televisori sventrati, simboli di una verità rapita e mai restituita, e poi un lenzuolo, una sindone laica e sacra, in cui sono stampate le impronte dei volti di Moro e di tutti i ragazzi trucidati quella mattina, all’angolo tra Via Fani e Via Stresa. Ulderico Pesce prende in prestito un’identità strappata all’adolescenza, quella di Ciro, fratello minore di Raffaele Iozzino, uno dei componenti della scorta di Aldo Moro, l’unico che il 16 marzo 1978 riuscì a esplodere due colpi contro i rapitori del presidente della DC, che si apprestava a concludere il «compromesso storico», il progetto politico di avvicinamento ai comunisti di Berlinguer.

Ciro Iozzino si muove freneticamente sulla scena per vomitare la frustrazione di chi ha visto morire il fratello maggiore e con lui il sogno di uno Stato guidato da Moro; uno Stato che potesse essere «sano» come le piantine di fave e la vigna di cui la famiglia Iozzino si occupava nella provincia campana.

Mentre i ricordi personali si intrecciano alla Storia, Ulderico Pesce – senza inquisire e con voce tremante – procede per interrogativi irrisolti: perché dei 93 bossoli rinvenuti sul luogo dell’attentato, solo due furono esplosi da Iozzino, mentre ben 49 risultarono scaricati da un FNA43, un’arma di precisione non in dotazione ai brigatisti? Le agghiaccianti ipotesi di coinvolgimento dei servizi segreti italiani, del neonato UCIGOS (strumento politico di polizia voluto e controllato dall’allora Ministro degli Interni Cossiga), degli Stati Uniti, schierati contro il «compromesso storico», vengono fuori proiettate su quel lenzuolo della vergogna che Ciro/Ulderico tende come un velo pietoso della memoria: non mere illazioni ma testimonianze dirette del giudice Ferdinando Imposimato, colui che avrebbe dovuto indagare fin dalla mattina del 16 marzo 1978 e che poté farlo solo dal 17 maggio, quando Moro era già morto, salvo poi essere sollevato dall’incarico e mandato in una sorta di «esilio di sicurezza».

Tante incongruenze si smuovono insieme alla polvere sollevata dai passi frenetici che s’inseguono sul palcoscenico: l’annuncio del rapimento dato da Rossellini su Radio Città Futura un’ora prima che si compisse («un’intuizione» fu definita durante il processo); le rivelazioni datate gennaio 1978, quando un detenuto del carcere di Matera avvertiva della possibilità reale di un atto terroristico nei confronti di un uomo della DC; poi il cecchino di via Fani, la Banda della Magliana, la P2, il blocco della rete telefonica, le foto svanite di un testimone e ancora le tre borse (su cinque) di Moro scomparse, parenti lontane dell’agenda rossa di Borsellino.

Ulderico Pesce, attraverso un’azione scenica misurata ma densissima, prova ad alimentare la necessità di una reazione sociale: al di là dello spettacolo, che riporta «moro» scritto con la minuscola per richiamare la radice di una morte già scritta; al di là della Storia che racconta di Cossiga e Andreotti presidenti di «trattative». Ora che la morte ha livellato tutto, quel bimbetto è cresciuto e sente che più di un faccione bronzeo, più di uno spettacolo, sarebbe opportuno desecretare le carte e le verità su tutte le volte in cui «è stato lo Stato» a uccidere un sogno, a costringere la verità in quella formula che Marco Bellocchio battezzò Buongiorno, Notte.

Nel frattempo il lavoro del guitto continua oltre la scena, sul web: sul sito www.uldericopesce.it una petizione rivolta alle più alte cariche dello Stato, chiede che il caso Moro venga svincolato dal segreto.

Teatro India, Roma – 26 novembre 2014

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