È possibile scommettere contro le banche e contro l'intera società americana? Adam McKay, regista, sceneggiatore e attore comico statunitense, si imbarca in questa nuova esperienza partendo proprio da questa ipotesi. La Grande Scommessa, tradotto dall'inglese The Big Short, letteralmente Il grande scoperto, è una feroce e sovversiva denuncia del sistema capitalistico americano, un'analisi che si disinteressa delle regole comuni del racconto cinematografico per un realismo estremo e, al contempo, un metalinguaggio lineare ed altamente efficace. Ma andiamo con ordine.
I fatti risalgono al 2005, il mercato immobiliare americano appariva più prospero che mai, chiunque chiedeva e otteneva un mutuo a tasso variabile. In questa fiorente economia, alcuni personaggi – su tutti l’eccentrico manager Michael Burry, un eccellente Christian Bale – avevano previsto un’instabilità, in realtà piuttosto evidente, e un conseguente crollo del mercato, anticipando la terribile crisi finanziaria del 2008. Il film segue dunque tre storie diverse e simultanee di questi personaggi che, previsto il crollo, decisero di investire contro il mercato stesso. La Grande Scommessa si basa sul libro omonimo di Michael Lewis, autore da cui era stato già tratto l’ottimo Moneyball di Bennett Miller.
L'opera di McKay riesce ad essere precisa e accurata, le intenzioni del regista appaiono chiare: mostrare a tutti, in modo estremamente trasparente, come è nata la crisi, chi sono i responsabili, chi ha intascato denaro sporco. Viene a galla il rapporto inquinato tra banche, compagnie di investitori e stati sovrani falliti, pronti a far ricadere su cittadini inermi gli sbagli di pochi. McKay prende in giro lo spettatore, rompendo la quarta parete con il personaggio di Ryan Gosling – e utilizzando espedienti visivi e narrativi sorprendenti, come l’impiego di personaggi famosi in contesti sfarzosi per spiegare concetti finanziari complicati.
Il regista quasi accusa l'audience di preferire l'ignoranza e l'intrattenimento alla dolorosa verità: in fondo siamo tutti consapevoli che è il sistema ad essere marcio, questa non è la prima crisi e non sarà certo l'ultima, «viviamo nell'era della truffa» afferma il personaggio dell'ottimo Steve Carell. Tutto questo delineato ora con ironia, ora con dramma.
L'autore si avvale dello straripante montaggio di Hank Corwin, già montatore di Terrence Malick, che si insinua nella storia, nelle crepe e nelle sfumature morali in cui sopravvivono i non eroi della vicenda. Quasi fosse un film di Michael Mann (si pensi a Insider soprattutto), in cui regna l'atmosfera surreale da inchiesta e spirito anarchico, la pellicola si sviluppa in un'estenuante e folle carrellata di dialoghi, fino all'amaro ed empatico epilogo di un avvenimento che dovremmo conoscere fin nei minimi particolari. Quella di Adam McKay è una scommessa stravinta.