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Come Around Sundown – Kings Of Leon

Per disquisire di questo “Come Around Sundown”, quinto lavoro in studio dei Kings Of Leon, bisogna chiarirsi subito e decidere da che parte stare. Se siete di quelli che amano i primi lavori della Followill Family, “puri” in quanto grezzi e genuini esempi di southern rock, e nel contempo sopportate malvolentieri la svolta commerciale di “Only By The Night” che ha dato ai KOL fama mondiale e successo di vendite, questo disco probabilmente non fa per voi. Se invece, come chi scrive, considerate proprio “Only By The Night” come il capolavoro della band, apice sostanzialmente irripetibile di un percorso artistico partito dal coro della Chiesa, passato al garage e arrivato prima a Londra e poi al mondo, allora potreste raccogliere sensazioni piacevoli.

Premessa: come accennato, ripetere “Only By The Night”, non solo per i KOL ma per chiunque si trovasse in questa condizione, è onestamente impossibile. Troppo “perfetto” quel disco, quella sequenza di tracce a un tempo radiofoniche e originali, epiche e celestiali, “rock” e “pop”. Per realizzare un seguito a un disco così vi sono due strade: la prima è quella di tentare di “rifarlo” copiandone lo stilema in particolare nei pezzi di punta, in questo caso tentando di fare “un’altra” Sex On Fire, “un’altra” Use Somebody, o peggio ancora “la nuova” Closer, “la nuova” Manhattan. La seconda via è fregarsene: suonare per il gusto di farlo, costruendo un disco ignorando le pressioni discografiche e commerciali, bevendoci su. I KOL hanno scelto, per fortuna, la seconda alternativa.

“Come Around Sundown” è infatti, a parere di chi scrive, il miglior seguito di “Only By The Night” che i KOL potessero scrivere. Chiaramente inferiore al predecessore, di cui però non ne è copia bensì consacrazione della sua stessa grandezza: un disco sostanzialmente omogeneo, eccezion fatta per un paio di tracce sottotono, ma comunque godibile e artisticamente valido (sempre fermo restando lo spartiacque iniziale). La prima metà dell’album, fino alla traccia 6, è il meglio del lavoro: The End è una intro monumentale cui segue il singolone Radioactive e subito di seguito una delle due gemme dell’album, la sublime Pyro che si appresta a diventare il secondo singolo e che disegna i nuovi confini, sognanti e malinconici, della band. Mary, canto religioso in gospel-style adattato alla chitarra elettrica, fa da “pausa” a un altro uno-due da brivido, con The Face che nonostante ricordi nell’impronta sonora la celebrata Notion di OBTN risulta comunque azzeccata – e subito dopo con l’altra gemma, The Immortals, un pezzo che si può definire ormai come una canzone “alla Kings Of Leon” – che è poi il suo bello, e la sua pecca: batteria in controtempo, basso praticamente “solista” ed esplosione solenne di chitarre in un ritornello melodico ed emotivamente intenso.

Back Down South apre la seconda parte rappresentando in maniera chiara l’atmosfera del disco: come si è detto, un album registrato fregandosene o quasi di ogni pressione da “seguito”, chiaramente mostrato da questo (ottimo) cazzeggio musicale che sa di sole americano, ranch, camicie a quadri e ampie bevute. Lungo la via l’album cala nettamente, un po’ – va detto per onestà – come accadeva già con “Only By The Night”. Beach Side e No Money sono gradevoli ma inferiori al resto, Pony Up addirittura inutile. Il finale risale di tono, con il fulminante ritornello di Birthday, un altro sostanziale cazzeggio come Mi Amigo e un pezzo “da stadio” come Pickup Truck, altro ritornello (peraltro un po’ scontato) fatto apposta per cantare in coro.

Per alcuni, la colpa dei KOL – e in generale di molto dell’indie contemporaneo – è essere diventati commerciali, è piacere alle masse, ché non si fa, guai, sennò non si è più underground. Perché per essere underground bisogna suonare di notte in uno scantinato, avere le pezze al culo e possibilmente piacere a pochi illuminati che hanno il dono divino di capire la grandezza di un disco che non conosce nessuno. Io non credo questo. I KOL – e chi non ne apprezza gli ultimi lavori più commerciali – sono il più fulgido esempio di questa sega mentale tipica di un certo modo di pensare dell’indie rock. Personalmente dissento, ma il mondo è bello perché è vario.

Se per “Only By The Night” Nathan Followill dichiarò che avevano concepito il disco come un album in cui ogni canzone poteva giocarsela alla pari con qualunque pezzo con ambizioni da classifica, questa volta non ha dichiarato nulla di tutto ciò. Forse era impegnato a bere, cazzeggiare e suonare. Si sente. Menomale.

Grazie


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