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Intervista ai Perturbazione

Musica X, il vostro sesto album, può rappresentare un punto di svolta sia dal punto di vista artistico che personale? Cos’è cambiato da prima a dopo le registrazioni? Quali molle sono scattate?

Il centro di gravità del disco sta nella volontà di scrollarsi di dosso le etichette. Uscire dal recinto in cui ti sei chiuso da solo e ti hanno chiuso gli altri. Aprire la finestra, per citare Chiticapisce, brano con il quale inizia disco. Per farlo occorreva inseguire un suono nuovo, inusuale per i Perturbazione. L’elettronica di Cris (uno dei due chitarristi) era quel suono. Ora vorremmo andare altrove, oltre, ovunque. Sanremo, il Premio Tenco, il Primo Maggio, Primavera Sound, Sunset Boulevard, nomina un palcoscenico dove non ci siamo esibiti e noi ci siamo. Se ci aprono la porta, beninteso…

Parlate di categorie sociali saltate, credete che in questo preciso tempo storico non solo coloro che vivono di musica e arte, ma anche le persone comuni tendano a far uscire la parte migliore e in alcuni casi quella più competitiva?

Un giorno mi sono ritrovato a pensare alla celebre frase di Don Milani e a modificarla in modo spontaneo in questo modo: l’appartenenza non è più una virtù. Tutto il disco è una riflessione sul senso di protezione che ti dà una gabbia ideologica. In amore. In politica. Nella società. Non c’è modo, per come la vedo io oggi, da padre, da frontman, da disgraziato sempre senza un quattrino, di separare la parte migliore dalla competizione. Questa, per esempio, è una delle verità scomode di Questa è Sparta.
Però invece di pontificare, a noi piace l’idea di usare le canzoni per far pensare ma anche per stare bene, per sentirsi leggeri. E’ una contraddizione. Ma senza contraddizioni la vita sarebbe davvero insopportabile.

Voi distinguete tra “complicazione” e “complessità”, dando rilievo a quest’ultima. Quali sono le influenze che più vi hanno stimolato per Musica X? Credete possa essere una “combinazione” vincente la vostra?

Vincente… magari… non ne ho idea. Le canzoni le abbiamo composte seguendo un istinto pop. ‘Basta lacrime’, ci siamo detti. Nel senso: basta melodrammi, largo all’energia liberatoria di una melodia irresistibile che con le parole ti inchioda a un significato senza per questo rinunciare al piacere di muovere il bacino al ritmo della canzone. Cuore e groove.
Così negli ascolti e nelle influenze ci abbiamo infilato di tutto, cose molto diverse: Phoenix, PIL, MGMT, Keren Ann, Katy Perry, Clash, Iggy Pop, Cure, Feist, Elbow, Stars, Michael Jackson, Bob Marley…
In fondo ci piace l’idea di lavorare con il pop inteso come quel mondo che non appartiene più a un territorio preciso o a un genere, ma che chiunque riconosce come linguaggio universale in grado di scavalcare i confini. Nell’ipotesi migliore, addirittura di abbatterli.

La presenza di Max Casacci come produttore è evidente a partire dalle prime note di “Chiticapisce”. Quando avete cominciato a lavorare al disco avevate un’idea precisa del suono che volevate ottenere? In cosa Casacci ha saputo aiutarvi e condurvi?

Noi stavamo lavorando a canzoni con una parte elettronica forte, mai come in passato. Cristiano, uno dei due chitarristi, è il responsabile maggiore della contaminazione del nostro suono con la parte elettronica, ma tutti lavoravamo in quella direzione. Io con le voci cercavo di lavorare su dei loop che partissero da un sapore blues per poi tagliuzzarle insieme e creare dei pattern quasi ritmici. Max ha preso questi elementi sparsi e gli ha uniti ricreando tutta l’elettronica a partire da suoni analogici, dei nostri strumenti, violoncello, rhodes, voci, chitarre, percussioni. Creando così un suono molto caldo. In più, la forza di Max è davvero nelle ritmiche, parte da quelle, smonta un giro di basso e lo riassembla incollandolo alla batteria e facendogli allo stesso tempo cantare una melodia forte. In breve: ci ha aiutati a trovare il groove.

Come nascono collaborazioni con artisti tanto diversi come Luca Carboni, Erica Mou e I Cani? E perché la scelta è ricaduta proprio su di loro, provenienti da emisferi musicali quasi agli antipodi?

Ci siamo stupiti noi per primi, alla fine del lavoro. Non c’era un piano prestabilito, ma è fighissimo che siano così diversi, per età e provenienza. Senza volerlo, abbiamo lavorato con l’idea di abbattere gli steccati. Usando il meglio di ciascun ospite: di Erica il timbro innocente che qui si scopre sexy, de I Cani il potere iconoclasta, di Luca il salto generazionale per cantare insieme proprio di quello, di Vittorio Cosma l’esecuzione sognante de I Baci Vietati al piano.

Credete che ci siano più punti di contatto oggi rispetto al passato tra le nuove leve emergenti e “i big”? Cosa secondo voi, che siete stati e siete tuttora impegnati a incentivare e produrre talenti, è possibile fare per creare un panorama artistico coeso? La musica può ancora essere un lavoro o sarebbe meglio considerarla un hobby?

La musica è come la democrazia: a parole tutti la vogliamo, ma nei fatti ciascuno vuole la sua playlist. Temo che un panorama artistico coeso, come lo definisci, sia un lontano miraggio. Ma attenzione: non è detto che tutto sia sbagliato. Credo che la distanza tra big ed emergenti ci debba essere, altrimenti non avremmo più punti di riferimenti, giusti o sbagliati che siano.
Sono un po’ fatalista su questa cosa, oggi, a quarant’anni. Giustamente quando ne avevo venti ero molto idealista. Ma sono così sicuro che il mio idealismo di allora fosse nutrito solo dai buoni sentimenti? Non credo. L’ambizione è il motore di una band. Puoi essere amico di altri musicisti. Puoi scrivere canzoni insieme. Puoi suonare insieme. Puoi volerti molto bene. Ma in cima alla scaletta, in cima alla classifica, sogni di starci tu. E’ un po’ crudele. Ma è necessario.

Grazie


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