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Belong – The Pains of Being Pure At Heart

È un rischio essere puri di cuore al giorno d'oggi, ma i casi sono due e uno esclude l'altro: o lo sei o non lo sei. Se fai parte del primo caso questo può arrecare qualche sofferenza che però la nostra coscienza supererà poiché saremo a posto con noi stessi, corretti e puri quanto basta per vivere in pace.

È passato un po' di tempo da quando quella notte mi sono ascoltato sul soundcloud tutto in streaming Belong, il nuovo album dei Pains Of Being Pure At Heart. Poi mi sono perso e di loro non ne ho più parlato, è arrivata la primavera ma non ne ho parlato, è arrivata la stagione delle ciliegie – e mi sembra la migliore per parlare di loro.

Il predecessore self-titled aveva smosso giustamente le acque attorno ai ragazzi d Brooklyn e prima ancora Higher Than the Stars sempre per Slumberland, aveva dato segnali che non erano passati inosservati. Mettiamo nel mio giradischi Lesa il loro lp bianco, nuovo di pacca e riproviamo le sensazioni della prima volta che li ho sentiti mescolando sensazioni passate, sensazioni post live, il piacevole e caldo fruscio del vinile e il caldo che mi sta massacrando.

In lontananza riverberi, Belong è l'open track (non ho mai apprezzato tanto le canzoni che danno anche il titolo all’album ma forse è l'unica cosa che non mi piace di quest'album) e al tredicesimo secondo l’inaspettata botta di chitarre che come mesi fa mi stende, lo zampino nel mixing di Alan Moulder è palese, ma grazie al cielo mi vien da dire. Perdono un po' d'ingenuità compositiva a favore di un po' di rabbia (solo musicale, non vocale) che Moulder sicuramente nel suo lavoro ha saputo canalizzare negli anfratti giusti senza snaturarli troppo. Mark “Flood” Ellis ci ha sicuramente dato una grossa mano come produttore (già U2, NIN, Depeche Mode e naturalmente Smashing Pumpkins). Insomma va bene che al primo ascolto torna alla mente subito l'adolescenza sonora di Siamese Dream degli Smashing Pumpkins infatti quando i toni si alzano, s'incattiviscono le chitarre mettendo da parte la leggerezza passata e torna un po' di quella rabbia che avevi tempo fa e che ora hai perso, che negli anni hai saputo mettere da parte. Rabbia che non perdura tanto perché poi si rientra nei ranghi con voce sognante e melliflua (il giusto) da ridare linfa vitale ai ciliegi in fiore di Bristol dove Field Mice e Heavenly misero le radici (discografiche) affidandosi alla Sarah Records (ciliegie a go-go).

In generale ci si guadagna in corposità di suoni, soprattutto le chitarre, ma insomma ad Alan Moulder bisogna pensare non solo come Smashing Pumpkins o Depeche Mode ma anche come My Bloody Valentine, Ride, Lush e Jesus and Mary Chain, tutte componenti che si sentono essendo anch'esse parte del background musicale della band – quindi non solo band scozzesi (Teenage Fanclub o Vaselines) ma anche grunge che per forza di cose hanno vissuto, pensare solo alla track Kurt Cobain’s Cardigan presente nello split coi Parallelograms, quello che può venire fuori ora non è di certo una casualità.

Heaven’s Gonna Happen Now si inserisce ancora nelle brame di Belong alleggerendosi, un po' di più, innestando qualche componente college rock. Con Heart in Your Heartbreak arriviamo ad uno dei pezzi migliori, tanto veloce quanto dolce, dolce più della partenza iniziale, curato con dovizia di particolari, più arzigogolato, bridge di chitarra a caricare il risultato finale, batteria di Kurt Feldman sostenuta e incessante per tutto il pezzo, stop and go e susseguirsi di orditi della tastiera di Peggy viaggiano a meraviglia con l'ingenuità e la purezza vocale di Kip Berman che rilegano il piacevole regalo che il brano dona alle vostre orecchie.

The Body si apre in distese ultraterrene, col basso di Alex Naidus che si posiziona ben davanti trainando il pezzo mentre le chitarre fanno un passo indietro rendendosi ambientali e di sottofondo al pezzo, rifacendosi più vive insieme alla tastiera senza però venire mai troppo fuori rispetto a quanto sentito all'inizio dell’album.

Solo come il “miele” (Just Like Honey) più buono, l'intro di batteria più citato degli ultimi anni non manca, che rende doveroso tributo ai Jesus and Mary Chain con Anne With an E perde sicurezza in sé stessa, espone tutte le proprie crepe leggere ma visibili nell'errore continuo, fissando un muro di poster e fissandosi anche le scarpe.

“The posters on the wall that were our only friends / Their lives we never knew, but oh how we imagined / Let’s go out tonight and do something that’s wrong / ‘cuz I don't feel alright when disaster’s gone”.

Finito, il lato A, ora lato B. Solo i puri di cuore potrebbero sentirsi in colpa e nemmeno in sogno tradirebbero. Even in Dreams risale il clima del disco riportandosi su altri piani, andamento sostenuto ma sognante e trascinante in medesima parte, una perla fra il twee pop e il pop rock mentre in My Terrible Friend siamo a braccetto coi My Bloody Valentine sì, ma quelli meno riverberati e più frenetici del periodo di Sunny Sunday Smile (1987).

Girl of 1,000 Dreams anche qui twee pop sparato e distorto a contrapporsi con l'anima dolce delle melodie vocali che raggiungono il dream pop in maniera evidente negli ultimi due brani Too Tough e Strange a chiudere il cerchio delle citazioni sognanti e ed eteree tra Ride e Pastels.

Non è un problema se ci avete sentito ancora altre 10 band dentro, non c’è niente di male, perché lo sapete meglio di me che “Ogni cosa è la versione di qualcos’altro” (Closer), questa è la loro versione che pesca su ampi spettri musicali senza risultare una brutta scopiazzatura, personalizzando nel modo giusto in quest’album con molta più coscienza del passato, ascolti degli ultimi 20 anni.

Molte pennellate, molti colori, come nell'artwork curato da Winston Chmielinski che mette assieme colori irreali su corpi reali, così i TPOBPAH uniscono sostanza e sogno non casualmente, alcune volte più istintivi con tinte più marcate, altre volte meno, più diluiti e trasparenti ma non per questo meno puri.

Grazie


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