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Intervista a Umberto Palazzo

È la prima volta dopo vent’anni di carriera che compari sulle scene in qualità di solista, alcune collaborazioni, ma il progetto questa volta è esclusivamente tuo. È come se dopo un’intera vita a fare musica avessi avuto la necessità di levarti la maschera del tutto. Dal punto di vista della scrittura, ma anche degli arrangiamenti puoi dire di esserti trovato più libero, o nelle precedenti formazioni ti sei sentito come per questo progetto?

Gli anni di carriera sono in realtà trenta, ahimè. A me piace molto il gioco di squadra, adoro creare alchimia fra i musicisti e lavorare sull’interplay. Anche per questo registro tutte le mie band principalmente dal vivo e possibilmente cerco di tenere la prima take, che ha sempre qualcosa in più. Ma questo materiale era troppo delicato e avevo bisogno di poter controllare ogni aspetto perché funzionasse.

La prima traccia estratta è Terzetto nella nebbia, una canzone ambientata in un mondo onirico. Sembrano ben mirate le reminiscenze che ti sono servite per la composizione del pezzo. Ce ne vuoi parlare? Ma soprattutto – la curiosità è tanta – spiegare che percorso ha affrontato questo terzetto nella tua mente: punti di partenza e d’arrivo di un viaggio fatto di sensazioni.

Il testo è volutamente ambiguo. Come insegnano i grandi songwriter un buon testo deve avere una positiva ambiguità, cioè non essere totalmente definito perché l’ascoltatore lo possa completare e far suo. Per questo non do mai l’interpretazione autentica dei miei testi. Ogni interpretazione è, teoricamente, esatta quanto la mia.

Perché hai scelto proprio quest’inno al sogno come aprifila del tuo album?

Tutto il disco è onirico, tutti i pezzi hanno una componente di sogno. Lo stato mentale più adatto per ascoltare questo disco è la semicoscienza del dormiveglia.

Tra le mie preferite c’è La marcia dei basilischi. Un pezzo strumentale talmente comunicativo che sembra racconti una storia. È sempre molto interessante capire quale idea aveva il cantautore nella stesura del brano. Io ho immaginato una scena di vita quotidiana in una delle fantastiche isole greche, qualche ballo tradizionale servito per i turisti, e in disparte la vera vita, quella di una Grecia in crisi, attaccata alle risorse che possiede. Tu conosci questo territorio? Per questa e le altre canzoni hai avuto bisogno di allontanarti da casa e vedere da vicino le realtà da te descritte?

Mi piace molto il rebetiko, una forma di popular music greca degli anni 30/40. Lo strumento solista di questo pezzo è il baglama, un piccolo bouzouki a scala cortissima, che veniva usato in carcere. Il mio è stato costruito a mano da un vecchio liutaio di cui ho dimenticato il nome, il migliore di Atene. Un pezzo fuori mercato che ho fatto comprare da Panos, un mio amico greco, che è tornato a Pescara con questo capolavoro, che gli dei lo benedicano. L’anno dopo ho provato ad averne un altro per un mio amico, ma l’artigiano era oramai morto. Credo proprio che sia uno strumento magico, il pezzo è scaturito da lui, il primo giorno che l’ho avuto fra le mani. Il pezzo l’ho scritto e registrato in qualche ora. E’ un po’ il bambino non voluto, ma tanto amato, dell’album. Il woomp che si sente nel pezzo è la parte in vetro di una plafoniera da terrazzo suonata sul collo col palmo aperto della mano. E sono come Salgari: amo ambientare storie in terre che non ho mai visitato.

Le tue origini si trovano nel Sud Italia. Dove hai passato la tua infanzia? Quali sono i ricordi più nitidi e sereni che hai di questa fetta di paese così spesso discriminata?

Ho passato la mia infanzia a Vasto, un posto splendido per passarci l’infanzia, per la sua bellezza e la magia dei posti. Una magia che fa parte di questo disco e lo compenetra totalmente. Che posso dire del Sud? Che bisogna girarlo un bel po’ per capire quanto è bello, cangiante, ancestrale e complesso e al contempo aspro e crudele. E’ molto triste che quasi tutti i meridionali conoscano benissimo il nord, mentre la maggior parte dei settentrionali non sia mai scesa a sud di Roma. Conosco più ragazzi del nord che siano andati a Londra di quanti non siano andati una sola volta al sud di quella che in fin dei conti è la loro stessa nazione, ma che a loro sembra un altro pianeta.

La scena “indie”pendente italiana, mai come in questi ultimi anni, sta vivendo almeno in superficie un cambiamento, un bombardamento pubblicitario, indie qui, indie lì. Sembra che qualsiasi evento abbia radici strettamente collegate al sottosuolo. Tu sei da anni direttore artistico del Wake Up, uno dei locali più famosi di Pescara; oltre che scrivere musica tua gestisci quella degli altri. E’ effettivamente mutato qualcosa per i giovani che si approcciano adesso a questo mondo? E’ più facile inserirsi o è l’ennesima trovata dei media per ingannare le nuove generazioni, e rendere “alla moda” ciò che non dovrebbe esserlo?

I media sono mistificazione, non possono essere altro. Quindi la risposta giusta è la seconda. Senza voler togliere nulla ai Verdena, grande rock band, amo far notare come, dal punto di vista tecnico e logico, quello che viene considerato il sommo gruppo indie italiano, non abbia in realtà mai pubblicato una nota che non fosse proprietà della multinazionale che li ha sotto contratto da quando erano in erba. È un paradosso talmente colossale che stronca qualsiasi discorso si voglia fare sull’indie, che, in quanto parola, in base a questa accezione del termine, diventa senza senso o con un senso che non ha nulla a che vedere col suo significato originale, che vorrebbe soprattutto dire indipendente dalle multinazionali e dalla logica di mercato. Cosa voglia dire indie in Italia lo sanno meglio gli uffici marketing che gli artisti. Non resta che chiedere a loro.

Grazie


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