Ryan Gosling’s upcoming film First Man about Neil Armstrong

Cronache dal Lido #1 – Venezia 75

First Man – Damien Chazelle

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Presentato come film d’apertura di Venezia 75, First Man è un film caleidoscopico e visivamente sorprendente, che fa delle immagini il proprio punto forte. Scisso tra un’affascinante estetizzazione e un realismo hollywoodiano, il lungometraggio di Damien Chazelle convince quindi per lo sfruttamento di un’immaginario iconografico capillarmente statunitense, restituito grazie a travolgenti tableux vivants e a tecnicismi che confermano la forte autorialità del cineasta. Ad avvalorare la bellezza delle immagini, non manca poi un’equilibrata colonna sonora, densa di voluti cambiamenti di ritmo e tonalità. Più canonica è invece la narrazione, tipica dei biopic più classici. In tal senso, non troppo incisiva è anche l’interpretazione dei protagonisti, tra cui spicca sicuramente la dolce Clare Foy rispetto al ben più rodato Ryan Gosling. Appassionante ma non eccessivamente sorprendente, First Man è dunque un film poggiato su un’ottima regia e fotografia, che non colpisce però in altri versanti.

Gabriele Landrini

Sulla mia pelle – Alessio Cremonini

SULLA MIA PELLE

La 75esima edizione della Mostra di Venezia apre la sezione Orizzonti con Sulla mia pelle, diretto da Alessio Cremonini e prodotto da Netflix (uscirà in sala e sulla piattaforma online in contemporanea il 12 Settembre), film civilmente impegnato, un caso estremamente paradigmatico al fine di riflettere sul periodo storico in cui stiamo vivendo. Il film ripercorre i sette giorni della vicenda tristemente nota alla cronaca italiana del caso di detenzione che ebbe come conseguenza il decesso di Stefano Cucchi dopo esser stato affidato alle mani della giustizia italiana. Arrestato con l’accusa di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, un normale iter amministrativo si è rivelato un susseguirsi di abusi di potere, negligenze e labirinti burocratici dal risvolto che tutti purtroppo conosciamo. Un film necessario per mantenere viva la memoria di un ragazzo, che sempre piu resta nell’immaginario italiano, come il ricordo sbiadito di una macabra fotografia di cronaca che ritrae un corpo inerme e tumefatto dopo l’autopsia. Necessario inoltre per dare voce all’eroica battaglia di una sorella che semplicemente chiede verità e che dopo sette anni di processi non sembra aver ancora trovato giustizia. Il film non mostrata la violenza fisica subita dal giovane ma si attiene alle vicissitudini e alla lunga agonia di un ragazzo solo, dal trascorso difficile ma sulla strada verso una redenzione personale grazie specialmente alla presenza e al supporto della famiglia. Alessandro Borghi, che interpreta il giovane Cucchi, tiene maestralmente il personaggio nel corso di tutta la sua trasformazione discendente verso la morte avvenuta non per cause naturali. Un corpo, una forma, una persona in carne ed ossa appunto non una foto. Ma dove il corpo viene meno, l’anima resiste. Un film molto forte, duro, che si attiene ai fatti e difficilmente fa trattenere le lacrime, un film davanti al quale non ci dobbiamo o voltare dalla parte opposta. Impossibile però non applaudire più forte alla presenza di Ilaria Cucchi presente in sala, una sorella, una cittadina italiana che ancora aspetta pace per il proprio fratello.

Alberto Morbelli

Les tombeaux sans noms – Rithy Panh

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Ad aprire la rassegna delle Giornate degli Autori, presso la sala Perla, è stato il nuovo e atteso lavoro di Rithy Panh, Les tombeaux sans noms (Graves Without a Name). Il regista cambogiano, come dimostrano i recenti L’image manquante (premio Un Certain Regard a Cannes nel 2013) e Exil (2016), continua a scavare insistentemente nella storia politica del suo paese e, al tempo stesso, nella sua personale storia di vita. Poco più che adolescente, alla fine degli anni ’70, egli riesce infatti a scappare dalla Cambogia, allora Kampuchea Democratica, dei Khmer rossi. Tutto ciò che è successo durante il regime dei Khmer rossi, tutto ciò che è successo durante il genocidio cambogiano, tutto ciò che è successo a Panh e alla sua famiglia, è da sempre stato il punto d’origine dell’opera cinematografica del regista, un’opera che ogni volta si conferma, nei suoi intenti documentaristici, magistralmente e struggentemente coniugati a dimensioni poetiche, meditativa, impegnata, forte e commovente. Les tombeaux sans noms è un film nuovamente personale, che racconta il passato del regista e che vede lo stesso comparire all’inizio e alla fine del film. Questa “personalizzazionee “soggettivizzazione”, tuttavia, – e ciò costituisce un tratto tipico della regia di Panh – non prende mai il sopravvento: essa è anzi accompagnata da una profonda riflessione sulla memoria e da un tentativo analitico, mitigato dalla modalità di  racconto diretta dei contadini cambogiani, di capire il peso dell’ideologia e le sofferenze vissute sotto il regime di Pol Pot. Alla ricerca delle tombe e soprattutto delle anime dei suoi familiari morti nel genocidio, il regista infatti, tramite la sua esperienza, soffermandosi lentamente, per lunghi tratti del film, sui cerimoniali atti a ritrovare i defunti, su paesaggi che nascondono corpi e sofferenze forse ancora intatte seppur non più  visibili, fa emergere quanto un genocidio distrugga tutto, “l’essere, l’età, i corpi, i ricordi”. Presente in sala, Panh, ha affermato come questo suo film abbia un punto di partenza, ovvero la ricerca di un dialogo con le anime dei familiari morti, forse di difficile comprensione per chi non crede in ciò; “superato” questo momento di riserva, ci si riconcilia con il film riconoscendo come esso non  risponda solo al suo bisogno di lottare contro l’oblio del passato cambogiano, ma anche e soprattutto al bisogno di reimparare, di riascoltare le immani sofferenze provocate da un’ideologia politica.

Giulia Angonese

 

 

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