Kilowatt Festival 2016

Conoscersi per risplendere

Le giovani diversità di Kilowatt Festival 2016

È tempo di risplendere

Lo s’intuisce da subito che la settimana in corso a Sansepolcro non è una di quelle da classificare con l’aggettivo «ordinaria». Basta incamminarsi per le stradine di questo piccolo comune toscano per ritrovare le locandine e i manifesti del festival su buona parte degli esercizi commerciali presenti, e se tutto non fosse ancora chiaro, servono solo una manciata di minuti per arrivare in Piazza Torre di Berta, il cuore della cittadina, allestita per l’occasione con un palco e una serie di sedie sdraio; accogliente spazio riservato agli spettacoli serali gratuiti, dono del festival rivolto agli abitanti della città che ha dato i natali a Piero della Francesca e a Santi di Tito e che dal 2003 ospita il Kilowatt Festival.

Capeggia anche qui l’emblema della rassegna diretta da Luca Ricci in collaborazione con Lucia Franchi: uno scatto in bianco e nero di un bacio che sta per materializzarsi, opera di Mario Giacomelli tratto dal ciclo Un uomo, una donna, un amore (1961). L’amore, il ritrovarsi, l’unirsi e alla base l’incitamento «è tempo di risplendere», verso tratto da una poesia di Amelia Rosselli che riecheggia ogni sera, poco prima degli spettacoli serali, grazie alla voce di Mariangela Gualtieri e alla sua diffusione di poesie e incisioni sonore dal titolo Ecco che è tempo di risplendere. Un incoraggiamento dunque, ma anche un buon auspicio e una necessità per una scena teatrale alla costante ricerca di un rilancio, e per un festival giunto alla sua XIV edizione, la più ricca di sempre. Ma parleremo di numeri più avanti.

Uno slogan lampante, al quale verrebbe da aggiungere un sottotitolo: “partendo dalla conoscenza di sé stessi e delle diversità che ci circondano”, autentica base per raggiungere il fine preposto, nonché costante individuata nella variegata scelta artistica durante i due giorni di permanenza. Per chiarire meglio il concetto partiamo da quello che è stato lo spettacolo più richiesto e spiazzante dell’intero festival: The Stranger di Daniele Bartolini, un «format urban-immersive» creato per la fruizione di un solo spettatore alla volta, e in cui lo stesso diventerà parte attiva.

Dapprima bendato, lo «spettattore», infatti, si ritroverà a esplorare vie, abitazioni e magazzini abbandonati di Sansepolcro accompagnato da attori sempre pronti a sollecitarne la partecipazione attiva in un percorso alla ricerca dello «straniero». Si potrebbe liberamente scegliere di rimanere in disparte a osservare ciò che avviene o lasciarsi immergere dall’esperienza e farsi trasportare dalle continue sorprese, tutte visibilmente artificiali ma altresì efficaci in quanto fuori dalle consuete dinamiche quotidiane.

Un viaggio prettamente personale allinterno di una collettività sconosciuta, in cui si è chiamati ad ascoltare, a consigliare, a raccontarsi e a liberarsi. Una ricerca inizialmente rivolta verso una persona fisica che si evolve in un’indagine spirituale atta a far maturare una maggiore apertura e conoscenza del proprio Io; condizione ottenuta grazie al relazionarsi con la collettività e con tutte le differenze socio-culturali inglobate in essa. Perché solo attraverso lavvicinamento e il confronto si può realmente fare un passo in avanti e sentirsi, in fondo, meno straniero rispetto allo stadio iniziale.

La relazione tra diversità – questa volta estesa in un campo più ampio, ossia quello europeo – e identità comune la ritroviamo ancora nel focus dedicato alle Playing Identities, progetto finanziato dalla Commissione Europea per creare interazione tra patrimonio artistico e spettacolo dal vivo.  Vediamo dunque nel dettaglio due dei quattro esiti finali di tale progetto presentati in anteprima proprio al Kilowatt: This home is not for sale e (Un)trapped  Identity or death?.

Il primo nasce dalla collaborazione tra il regista britannico Harry Wilson e quattro giovani attori rumeni. Il fine dello spettacolo è di indagare le vicende legate a Roşia Montană, uno dei più antichi siti minerari europei, al centro di una lunghissima e pericolosa estrazione dell’oro per mezzo del cianuro, bloccata dagli ecologisti nel 2015.

Il clima iniziale è leggero e divertente: una presentatrice è alle prese con un quiz televisivo al quale partecipano tre concorrenti. Ben presto, però, la comicità si trasforma in satira nei confronti del vecchio regime e delle sue contraddizioni, che fanno riemergere ferite mai sparite e speranze andate perdute. Di qui l’evoluzione finale in cui i quattro attori, dimessi gli abiti televisivi, fanno rivivere le proteste e le rivolte sindacali di un passato troppo recente per essere completamente archiviato.

Simile nella costruzione, il secondo spettacolo vede in scena quattro giovani attori, allievi dell’Accademia di Musica e Teatro di Vilnius, diretti dal regista spagnolo Sadurnì Vergés. L’intento dell’opera è di fornire una fotografia della Lituania che più si allontani dal classico scenario da cartolina.

In effetti, si parte come se davanti a noi ci fosse uno spot televisivo in cui gli attori decantano le bellezze di una terra in cui il basket, l’efficienza, il cibo e le belle donne sono i cardini di una nazione apparentemente perfetta. Ben presto, però, i sorrisi e gli ammiccamenti di copertina si alterneranno alla storia di un ragazzo omosessuale che, ripudiato dal padre, trova asilo a Berlino, dove inizia a riconciliarsi con se stesso e ad aiutare altre persone che come lui hanno subito discriminazioni, simboli di una nazione con forti contrasti interni, specie su un tema delicato come l’omofobia.

Due spettacoli che si fondano sul contrasto comico/tragico per mettere in evidenza problematiche più o meno latenti nei rispettivi paesi. Nel complesso, però, la costruzione lineare – senza l’assunzione di qualche rischio formale o testuale – e il finale melodrammatico in comune, pare rendere queste due creazioni adatte a una messa in scena nelle scuole piuttosto che a teatro, perché se nel primo luogo lo spettatore ha bisogno di essere condotto mano per la mano, nel secondo, a mio avviso, ha più bisogno di un colpo allo stomaco, specie quando si trattano temi delicati come questi. E questa sensazione proprio non si è percepita.

Si esce completamente dal borgo e dall’Europa, invece, con Venus di Nicola Galli, uno dei tanti spettacoli di danza presenti in rassegna. L’opera in questione è il secondo capitolo della ricerca coreografica di Galli dedicata al sistema planetario, progetto che comprende anche Jupiter e Mars, rispettivamente primo e terzo capitolo.

Lo stesso coreografo è in scena con Alessandra Fabbri: sono loro le due figure umane che approdano su Venere. La scena è spoglia, al suo interno solo un tubo d’acciaio e una panca ginnica; in lontananza, su sfondo nero, appare la Terra, splendente e malinconica. La prima parte è dominata dalle linee sinuose disegnate da lei, ben presto accompagnata dai movimenti gioviali di lui che hanno l’intento di risollevarle l’animo quando le origini terrestri iniziano a tornare nella mente. S’instaura così un moto armonico costantemente interrotto da agenti esterni che aumentano, di volta in volta, il senso di malinconia che li affligge.

Esercizi tratti dal repertorio ballettistico e ginnico si alternano in due corpi che hanno disperato bisogno di andare avanti, insieme, nonostante le reciproche diversità e le avversità del caso. Due novelli Adamo ed Eva che però si rassegnano, cedono alle ostilità nelle quali sono intrappolati e rimangono a fissare nostalgicamente la propria Terra. Almeno per il momento.

Dai pochi spettacoli descritti si può intuire quale sia stata la variegata ed eterogenea – sia per gli aspetti formali che contenutistici – offerta di questa rassegna che ha avuto il gran merito di prendersi i propri rischi e puntare molto sui giovani. Magari a livello qualitativo ne avrà di tanto in tanto risentito, ma sono incognite calcolate e mai azzardi, perché è grazie ad esse che si può continuare a crescere, migliorare, per non restare cristallizzati nella solita confortante forma e poter tornare a splendere.

Un cartellone di 59 repliche, 46 differenti spettacoli, 163 artisti, 4.000 spettatori paganti, e oltre 2.000 presenze ai 16 eventi collaterali gratuiti. Avevamo promesso un po’ di numeri, questi rendono bene l’idea del successo ottenuto da un festival che ha cercato costantemente un dialogo con realtà ritenute «diverse» ma che in fin dei conti si sono rivelate più vicine di quanto pensassimo. Una presa di coscienza che solo linterazione, lo scambio e la partecipazione attiva ha potuto instaurare e alimentare. E questa, al di là dei numeri, credo sia stata la vittoria più grande.

(Foto ©Luca Del Pia, Ufficio Stampa Kilowatt Festival)

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