La crisi dell’inclusività e la discriminazione culturale
Un primo sguardo su Collinarea XVII
Abituati alla bulimia contemporanea di informazione a volte ci dimentichiamo che per sapere qualcosa si può anche semplicemente chiedere, direttamente. “Tu perché non vai a teatro?” ad esempio. Senza troppe speculazioni, complicati algoritmi o fonti incrociate: abbandonare la smania dei big data e ritornare al caro vecchio sistema di domanda-risposta. Almeno ogni tanto. Perché sarà anche giusto studiare la società con rigore scientifico, ma a volte a forza di usare i guanti di lattice ci si dimentica che dietro il materiale di indagine ci sono persone. E allora quale risultato mai ci ritroviamo tra le mani?
Trascorrere due giorni al Festival Collinarea (direzione artistica Loris Seghizzi) restituisce il piacere del tatto: polpastrelli liberi di curiosare senza tanti timori. Forse l’offerta teatrale in sé non regala particolari guizzi (e la tendenza all’autoreferenzialità pontederese probabilmente non giova alla varietà), ma il dato a nostro avviso più interessante è senza dubbio quello della partecipazione. Come sta emergendo in maniera sempre più evidente, d’altronde, i festival teatrali si dimostrano troppo spesso un appuntamento rivolto fondamentalmente a operatori e critici con buona pace della perennemente invocata (e puntualmente smentita) inclusività. Ed ecco invece che mettendo piede nella piccolissima Lari (30 km a est di Livorno) subito abbiamo la piacevole impressione di essere noi, “addetti ai lavori”, gli intrusi.
“Io per quarant’anni non ho mai messo piede in un teatro” ci racconta uno degli spettatori al piacevole incontro di avvicinamento tra stampa e pubblico Tutti critici; “Mi dicevo: ‘Che ci devo andare mai a fare a teatro? Io faccio l’elettricista!’ E poi alla fine mi sono reso conto che l’errore più grande era proprio chiedermi ‘A che serve?’“. E chiacchierando con questi osservatori critici improvvisati emergono tutte le difficoltà di un sistema culturale italiano che si conferma ancora troppo opaco, elitario, discriminatorio, che mortifica anziché stimolare l’ignoranza (non che manchino azioni in felice controtendenza ben inteso); ribadendo il grande ritardo della formazione scolastica che si concentra molto sul passato lontano ma che spesso si dimentica dell’avvenire, crescendo grandi analfabeti del presente, alienati fra conoscenza ed esperienza.
Ma, appunto, questo è una faccia soltanto della medaglia, un dato parziale, tutt’altro che definitivo. Già perché la curiosità attende sempre dietro l’angolo e basta saperla intercettare, magari ricominciando dalle piccole semplici buone pratiche quotidiane, tenendo a bada la vertigine dell’erudizione, cercando forme di comunicazione dignitose, che non inseguano tanto la condivisione di massa ma la maturazione di un senso critico. Come dire, vogliamo un fan/friend/follower affezionato e miope o un interlocutore attento e stimolante? Vogliamo che l'”altro” gonfi il nostro ego o che partecipi a una crescita comune? Vogliamo imparare anche concretamente dal teatro oppure si tratta solo di un alto argomento di conversazione per pochi?
E dire che non è passato neanche un anno dalla preziosa lezione dell’Alcesti di Civica—o andiamo troppo di fretta per ricordarcene?
The more I buy the more I’m bought,
and the more I’m bought the less I cost.Joe Pug Hymn #101
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