Foto di scena ©Tommaso Le Pera

La scossa tellurica alla società instabile

Alle Vie dei Festival Scannasurice di Cerciello/Moscato

Dimenticatevi di una Napoli soleggiata, del profumo del mare o dell’allegria di Pulcinella: nella Napoli di Enzo Moscato il sole non splende mai. Scannasurice (letteralmente “ammazza – topi”), scritto dopo il tragico terremoto dell’Ottanta e riproposto in scena per la regia di Carlo Cerciello, è infatti un viaggio dentro una Napoli oscura e infernale, che porta impresse nei suoi vicoli le ferite della distruzione. Sul palco del teatro Vascello si impone alla vista una struttura verticale di un grigio smorto a ricreare un edificio smembrato dal terremoto, una topaia fetida dalle cui mura ridotte a scheletro si intravedono ciarpame e cianfrusaglie (scene di Roberto Crea).

In questa squallida scacchiera vuota, ogni quadrante verrà riempito da una meravigliosa Imma Villa nei panni di un “femminiello”, un travestito, nonché figura tipica della cultura popolare napoletana. In abiti femminili, impellicciato e truccato (costumi Daniela Ciancio), ecco che lo “scannasurice” si trascina lungo questi muri crepati, si rannicchia cercando microfoni segreti dove la voce diventa un’eco inquietante, come se davanti a lei si dischiudesse una fogna sotterranea. Parla con i topi, per sfuggire al gelo e alla solitudine si attacca a qualche bottiglia, a volte prende le sembianze della Madonna di un’edicola votiva imprecante contro i “surice” – simbolo dei napoletani stessi.

Una Madonna santa e blasfema, come d’altronde la Napoli che emerge dal racconto del femminiello, che rievoca al pubblico la sua infanzia, la vita nei quartieri spagnoli, storie di monacielli, di santi e di spiriti, filastrocche e leggende. Una storia come tante, disgraziata, che si intreccia alla Storia in quel giorno in cui il “bum bum bum” sconquassa la vita di tutti, portando con sé la distruzione del territorio e della società intera.

Foto di scena ©Andrea Falasconi

L’esistenza del femminiello trascorre così in un piccolo mondo fatto di espedienti, un limbo dove la vita si è fermata, sotterrata in mezzo alle macerie insieme ai cadaveri. Piange il suo dolore al bagliore della luna ed è l’ossessione per la casa – casa come focolare – quella ad emergere con più forza: perdere la propria casa vuol dire allora perdere il proprio passato, essere strappato con violenza da un pezzo della propria identità, una perdita che dal piano esistenziale si trasferisce anche sul piano sessuale, nell’ambiguità di questa creatura ibrida confinata in una zona di confine tra il maschile e il femminile.

Foto di scena ©Andrea Falasconi

È una condizione che Imma Villa prende su di sé in un’interpretazione molto intensa, in cui l’attrice diventa un cuore pulsante inesauribile di immagini, di storie, di stati d’animo, dove ogni sillaba pronunciata riproduce il ritmo, l’energia e la musicalità del napoletano stretto e viscerale, colto e popolare di Moscato. La regia di Cerciello, mai invasiva, mai fine a sé stessa, carpisce invece i significati profondi del testo e li riporta alla luce, vedendo nella piccola vita di un femminiello, proprio perché nella sua inconsapevole ingenuità, il riflesso di un dolore universale, in cui le scosse telluriche – tragico lascito della natura – si fanno metafora dell’instabilità della vita stessa: estremamente precaria, disorientata, pronta a cancellare tutto da un momento all’altro.

Teatro Vascello, Roma – 25 settembre 2015

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