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A Bigger Splash – Luca Guadagnino

Ancora prima di essere il nuovo film di Luca Guadagnino in concorso a Venezia, A Bigger Splash è il titolo di un dipinto di David Hockney del 1967, in cui la superficie piatta di una piscina viene squarciata dal tuffo di un corpo (non mostrato) appena entrato in acqua. Ed è proprio dal quadro del celebre pittore inglese art pop che il regista siciliano ha preso il titolo della sua pellicola, libero remake de La piscine di Jacques Deray con Alain Delon e Romy Schneider.

La piscine, Jacques Deray, 1969

La piscine, Jacques Deray, 1969

Qui la piscina rappresenta effettivamente una “zona” diegeticamente cruciale, ma il “tuffo più grande, profondo” ha anche una valenza metaforica, dato che i due protagonisti dovranno farne uno piuttosto consistente nel passato. Mentre la rockstar Marianne Lane (Tilda Swinton) – momentaneamente senza voce in seguito a un intervento alle corde vocali – e il suo compagno e fotografo Paul (Matthias Schoenaerts) stanno trascorrendo una vacanza nell’isola di Pantelleria vengono inaspettatamente raggiunti dall’esuberante Harry (Ralph Fiennes), produttore nonché ex della cantante, arrivato in compagnia della giovane e seducente figlia Penelope (Dakota Johnson). Marianne, seppur sorpresa, invita i due a rimanere, e il non detto, i ricordi, e nuove tensioni si intrecciano fino a che il rilassante soggiorno non si gonfia come un turbine che lascerà il segno.

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A bigger splash, David Hockney, 1967

A Bigger Splash è un film di corpi ricettivi che, reclamando spazio, contaminano le immagini con morboso languore, ma a rimanere in mente sono le abilità sfoggiate da Guadagnino nel “modellare” il paesaggio a seconda degli umori dei personaggi e delle circostanze. Inizialmente la coppia, fra sesso, effusioni e spensieratezza sembra armonizzarsi selvaggiamente con il luogo, mentre già poco prima che Harry le telefoni avvertendola del suo imminente arrivo l’ambiente si fa più livido, e da culla incontaminata passa ad essere incantevole ma ambigua trappola in cui i due si aggirano con incertezza.

Ed è un peccato vedere, poi, come queste ottime “visioni” di Guadagnino – assecondate, tra l’altro, da ricchi movimenti di macchina e zoom che ne alimentano la drammaticità – vengano più volte interrotte da interventi patinati ed eccessivamente “laccati”, lontani dall’eleganza tesa e ricca di sottotesti di Io sono l’amore. La pellicola boccheggia ulteriormente quando irrompono personaggi che vorrebbero essere ironici e di allentamento come il capo dei carabinieri (Corrado Guzzanti), mentre altro non sono che imbarazzanti macchiette fuori posto. Anche il personaggio di Tilda Swinton, per quanto eccezionale col suo miracolo di androginia e trasformismo a cui ci ha da tempo abituato, non “gode” della stessa bellezza e potenza della Emma Recchi di Io sono l’amore.

Come, perciò, l’arrivo di Harry sparpaglierà per un po’ nel caos le vite della coppia, allo stesso modo queste evitabili “trovate” del cineasta scompigliano non poco la riuscita dell’opera. Un classico esempio di occasione parzialmente mancata – o annegata, visto il contesto – di un regista il cui sguardo ha molto da dire e costruire.

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