Why Don’t You Play in Hell? – Sion Sono
Uno degli eventi più attesi del programma della sezione Orizzonti era certamente la prima dell’ultimo film del giapponese Sion Sono, uno degli autori nipponici oggetto di culto cinefilo anche in Occidente negli ultimi anni. Why Don’t You Play in Hell? non delude le attese e si segnala come uno dei titoli più interessanti di questo primo scorcio di Mostra.
Già ridurre in poche righe la trama di questa esperienza visiva lunga due ore e a tratti frastornante è un’impresa dura. Si può dire che ci troviamo di fronte a uno yakuza movie atipico, dove si assiste alle vicende di una faida tra due clan rivali che esplode in violentissimi scontri due volte a distanza di dieci anni. Nel frattempo cresce una bambina che sogna di fare l'attrice e cresce un gruppo di quattro otaku che vivono solo per poter finalmente fare un grande film ma che restano al palo di un velleitario quanto entusiasta dilettantismo. Le guerre dei vecchi e i sogni dei giovani finiranno per collidere, fare un tratto di strada insieme e infine deflagrare in una reazione esplosiva e violenta.
Deflagrante è l’impatto sullo spettatore di questa fantasia esagitata e ironica, che non si prende sul serio, che investe lo sguardo con una valanga di stimoli e di impulsi, di suoni e di immagini, con personaggi caricaturali e ossessi, il tutto frullato da un montaggio incalzante. Ancora una volta siamo testimoni di un divertimento e di una scoperta anche in questi anni di sazietà provocata dai vampirismi di Tarantino ed epigoni su tanto cinema di genere dell’Estremo Oriente. Come in alcuni dei titoli più folli ed estremi di Takashi Miike (per esempio Fudoh o Full Metal Yakuza) il genere yakuza è il punto di partenza per scatenare un fiume di sangue, per viaggiare nella fantasia fumettistica di un cinema che si diverte e vive fino in fondo le proprie viscerali passioni.
Ci si diverte come i giovani protagonisti di questo film che sognano il grande cinema e Bruce Lee, e lo sognano ancora in 35 millimetri, e che sono il pretesto per una mise en ebyme metacinematografica articolata su molteplici livelli. Why Don't You Play in Hell? è infatti la messa in scena di un film immaginato, inseguito, infine prodotto, ed è forse anche esso stesso quel film infine realizzato mentre noi spettatori, seduti nel buio nella sala veneziana, non siamo altro che il lieto fine, l’ultima tessera del puzzle, l’ultimo fotogramma da incollare in moviola.