#1 Racconti dalla Berlinale 2020
La settantesima edizione della Berlinale diretta dal duo Chatrian-Rissenbeek si è ufficialmente aperta con la prima mondiale di My Salinger Year, film fuori concorso del regista canadese Philippe Falardeau. Tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Joanna Rakoff, il film racconta l’esperienza dell’autrice come segretaria nell’agenzia letteraria newyorkese che gestiva gli interessi di J. D. Salinger. Joanna, interpretata dall’emergente Margaret Qualley (la giovane autostoppista hippie in C’era una volta a… Hollywood), ha lasciato Berkeley per New York, spinta dalla voglia di emergere come scrittrice. Ben presto però si ritrova dietro la scrivania a controllare le lettere degli innumerevoli ammiratori di Salinger. Siamo negli anni ’90 e l’assassinio di John Lennon perpetrato da Mark Chapman ritrovato con in mano la copia de Il giovane Holden non è stato ancora dimenticato. Occorre una certa cautela nella corrispondenza con i più appassionati e nei confronti dello stesso ombroso Salinger che, di tanto in tanto, telefona in agenzia per parlare con Margaret (Sigourney Weaver), la severa ma ironica titolare dell’agenzia, riecheggiante a tratti l’iconica Miranda Priestley de Il diavolo veste Prada. Come si può vedere, Falardeau aveva a disposizione più carte interessanti con le quali giocare: la figura di Salinger, la scena letteraria newyorkese, i sogni di una giovane scrittrice di poesie e il complesso lavoro dell’agente letterario. Il risultato però non è dei più entusiasmanti: il film è scorrevole, godibile, ben confezionato, ma un po’ sottotono, senza nessuno spunto di forza e originalità registiche.
Ben diverso invece il discorso per quanto riguarda Volevo nascondermi, uno dei due titoli italiani in gara per l’Orso d’oro. Il film di Giorgio Diritti racconta la vita di Antonio Ligabue e porta sullo schermo un Elio Germano che, nei panni del pittore di Gualtieri, offre un’interpretazione straordinaria, ben raccogliendo l’eredità del compianto Flavio Bucci, scomparso pochi giorni fa. Una straordinarietà che del resto è già di per sé cifra che caratterizza la vita e soprattutto la psiche di Ligabue. Il film copre tutto l’arco dell’esistenza del pittore: l’infanzia in Svizzera dove già mostrava segni di squilibrio; il suo arrivo sulle sponde del Po, nascosto nei boschi per una vita allo stato brado; i vari ricoveri nei sanatori; l’incontro con Mazzacurati; il riconoscimento della sua arte con la consacrazione prima a Roma e poi sullo scenario internazionale. Il regista bolognese nel seguire queste varie tappe di vita mantiene una giusta distanza dal tema della pazzia di Ligabue. Non si addentra in essa, ma cerca di osservarla, di inseguirla nella sua evidente matrice artistica, affidandosi alle capacità di Germano e alla narrazione del relazionarsi istintivo di Ligabue con il paesaggio, con gli animali, con gli altri abitanti di Gualtieri e con i suoi sentimenti di disprezzo, orgoglio, generosità, bisogno d’amore. Nella regia di Diritti convivono autorialità e semplicità, connubio sempre più difficile da riscontrare nel cinema odierno; una nota di merito va anche alla fotografia di Matteo Cocco che ben riproduce, complici le corse in motocicletta e poi in auto di Ligabue, il paesaggio della Bassa padana dove egli si muoveva con accanimento creativo.
Il secondo film in gara delle prime giornate berlinesi è El prófugo dell’argentina Natalia Meta. Liberamente ispirato a El mal menor, ultimo racconto pubblicato da Charly Feiling (morto nel 1997), ha per protagonista Inés (Érica Rivas), cantante doppiatrice perseguitata da incubi notturni e strane visioni. Dopo un tragico viaggio con il partner conosciuto da poco, Inés si rende conto di avere una strana presenza nelle sue corde vocali che le impedisce di cantare. Tra l’onirico e il reale, tenta di liberarsi di questa presenza invasiva – ribattezzata profugo cioè intruso – nella quale si trasfigurano anche sua madre (Cecilia Roth) e il suo nuovo fidanzato (Nahuel Pérez Biscayart). La regista, venuta a conoscenza del romanzo di Feiling grazie all’amico scrittore Luis Chitarroni (menzionato peraltro nel film), si è detta affascinata dal concetto di profugo, declinato tra tinte thriller e marcatamente comiche. Altri temi inoltre appaiono sulla carta molto interessanti, come quello della voce, del doppiaggio nel cinema, del suono; ad ogni modo tutti questi temi nel corso del film non sono stati ben esplorati, incastrati dentro una sceneggiatura fuori fuoco e, sotto certi aspetti, quasi approssimativa.
Da menzionare infine altri due titoli fuori gara. Il primo ha aperto la sezione Berlinale Forum: si tratta di El tango del viudo y su espejo deformante, lungometraggio iniziato da Raúl Ruiz nel 1967 e concluso solo oggi dalla compagna Valeria Sarmiento. Il film, che tra l’horror e il fantastico narra la storia di un vedovo perseguitato dal fantasma della moglie morta, mostra l’enorme carica sperimentale e eccentrica del celebre regista cileno.
Il secondo film invece è Swimming Out Till the Sea Turn Blue del cinese Jia Zhang-Ke, per la sezione Berlinale Special. Nelle interviste fatte ai più importanti scrittori cinesi d’oggi, il regista ha modo di raccontare presente e passato della Cina. Ogni scrittore parla della sua infanzia e delle differenze rispetto al mondo d’oggi: dalla Grande rivoluzione culturale proletaria si è passati ai giovani sul bus con la testa sempre china sugli smartphones; i paesaggi e i corsi dei fiumi sono cambiati così come i dialetti sono andati persi. Il film è una conferma per il regista di Fenyang, sempre capace di offrire una poetica mai enfatica ma intelligente ed essenziale nella sua ricchezza.