richard gere Time Out of Mind

Time Out of Mind – Oren Moverman

Non c’è traccia di falsi moralismi, né di (in)conscio stimolo del senso di colpa e tanto meno di ricerca di pietoso compiacimento, nelle immagini di Time Out of Mind, scritto e diretto Oren Moverman e proposto al Film Festival di Roma nella sezione “Cinema d’oggi”. Lungi dal mero obiettivo di far scendere una lacrima di tristezza sulla guancia dello spettatore, il regista israeliano affida a Richard Gere (anche produttore), il compito di raccontare un percorso – più che una storia – di solitudine, di emarginazione, d’indifferenza, con l’uso (pressoché esclusivo) dell’espressività di occhi, volto e corpo. Sì, perché George, clochard newyorkese di mezz’età, un tempo benestante, sposato e padre di Maggie (Jena Malone), giovane barista piena di risentimento, è un personaggio in grado di parlarci della sua vita senza quasi aprir bocca – pochi sono infatti i dialoghi per le quasi due ore di pellicola – e l’ex ufficiale e gentiluomo trasforma ogni ruga, ogni sguardo, ogni gesto in un epidermico vettore di umanità piena di una drammaticità soave che mai si macchia di superficiale leziosità.

Noi dobbiamo camminare accanto a lui, senza la pretesa di conoscere il suo trascorso: non ce n’è bisogno, George vive ora, nel presente, nella conseguenza del passato. Lo seguiamo, attraverso l’obiettivo di una regia che da un lato riporta alla memoria il “pedinamento” neorealista – il cui eco si risente anche nella sceneggiatura che “si perde” con eleganza nella mente, nei silenzi, nel procedere senza meta del protagonista -, dall’altro penetra esterni e interni, strade e stanze, pur mantenendo una volontaria distanza “di sicurezza” delimitata da vetri, porte e vetrine – interposti tra macchina da presa e realtà filmata – dai quali sbircia la sofferenza di un essere umano privato di se stesso, della sua identità.

Procediamogli accanto, nei centri d’accoglienza, negli uffici amministrativi – regno degli assurdi rimandi burocratici –, negli ospedali, alla ricerca di un giaciglio qualsiasi dove poter stringere la propria dignità; scrutiamo i suoi sguardi svaniti nell’aria, i suoi passi interrotti, ascoltiamo i suoi pensieri e i suoi logorroici amici (o forse concrete allucinazioni). Tocchiamo con testa e cuore – e qui sta l’efficacia del film – la frustrante consapevolezza di chi sopravvive le ore incolmabili e vuote, di chi, immobile, attraversa spazi infiniti, sconosciuti, di chi è socialmente spaventoso perché avanza senza una direzione, di chi è inutile, anzi gravoso, perché non possiede né lavoro né denaro, di chi non esiste perché carne e ossa non bastano per essere visibili, ci vuole un certificato, valido.

Grazie


Per 15 anni Paper Street è stata una rivista on-line di informazione culturale che ha seguito con i suoi accreditati i principali festival europei di cinema e musica: decine di collaboratori hanno scritto da tutta la penisola dando vita ad un archivio composto da centinaia di articoli, articoli che restano a disposizione di voi lettori che siete stati un numero incalcolabile nonché il motivo per cui, per tanto tempo, abbiamo scritto con passione per questo progetto editoriale che ci ha riempiti di soddisfazioni.

This will close in 30 seconds