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The Office USA

Se bisogna trovare una tendenza hollywoodiana che più di tutte riesca ad urtare e a provocare il pubblico, è facile individuarla nei remake di prodotti stranieri. La maggior parte delle volte, lo spettatore si contorce alla sola idea della possibile gestione scellerata di queste operazioni, producendosi in sprezzanti ingiurie verso l’executive che ha deciso di prendere qualcosa di finito e perfetto nel suo insieme per dilaniarlo senza ragione, spesso annacquandolo e corrompendolo nella sua anima. Al cinema, l’esempio più recente è l’Old Boy di Spike Lee, ma anche in campo seriale sono molti i casi di trasposizione intercontinentale dall’esito ambiguo, come Life On Mars o The Killing. In tutto questo, si possono trovare anche remake che riescono a rispettare la propria fonte d’ispirazione, riuscendo addirittura ad emanciparsene e a darne una propria visione: nel campo delle comedy, l’esempio di maggiore successo è The Office.

La serie originale (BBC, 2001-2003) che ha lanciato l’esuberante Ricky Gervais, qui in veste di produttore esecutivo, possiede un’idea di base semplicemente perfetta: in un periodo storico in cui la reality television stava andando affermandosi sul mercato, The Office getta un gruppo di banali e noiosi impiegati d’ufficio in pasto ad una troupe dedita a riprendere le loro giornate lavorative. Rientrante nel folto gruppo dei mockumentary, la sua versione americana riesce nel miracolo e, scontata una prima stagione che concede solo un antipasto di quello che diventerà, si consolida come una delle serie più divertenti del decennio.

Una delle difficoltà maggiori era quella di riuscire a trovare un cast che non facesse rimpiangere quello dell’originale (fra cui si annovera anche il futuro Hobbit Martin Freeman): bastano solo poche puntate per apprezzare le ottime scelte, da Dwight/Rainn Wilson a Jim/John Krasinski ed ogni personaggio viene adattato nella maniera più congeniale per un remake a stelle e strisce.

Ancor più essenziale azzeccare la scelta del capo dell’ufficio, perno delle vicende della serie, con la sua incompetenza conclamata e dal pessimo senso dell’umorismo: anche in questo frangente la scelta di passare il testimone a Steve Carell, comico esploso in quel preciso momento con 40 Anni Vergine, è stata decisiva per il successo dello show. Carell si cala perfettamente in Michael Scott, manager della filiale di Scranton della Dunder Mifflin, azienda specializzata in carta da fotocopie, facendo suo il personaggio e donandogli un’anima forse meno cinica rispetto al suo collega d’oltreoceano David Brent, ma sempre infantile ed egoista.

Il declino dello show giunge all’ottava stagione, con l’addio di Carell e l’arrivo di James Spader, col termine della sua gloriosa corsa solo un anno dopo, lasciando un vuoto tutt’oggi incolmabile nella serata comedy del giovedì della NBC, facendo rimpiangere anche le terribili battute a sfondo sessuale del manager più famoso della tv. O almeno, come spesso ripeteva, “that’s what she said”.

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