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Sivas – Kaan Müjdeci

Coraggio o incoscienza, difficile dire quale delle due si addica al regista turco Kaan Müjdeci, approdato in concorso 71esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia con la sua opera prima Sivas. La storia è quella di un ragazzino di undici anni, Aslan, che vive in un villaggio rurale vicino ad Ankara con il padre e il fratello maggiore. Un soggetto sui generis rispetto a quello che ci si aspetterebbe leggendo la sinossi e pensando alla storia di un undicenne e di un cane; Aslan infatti emula apertamente gli atteggiamenti da uomo rude del fratello e degli uomini del villaggio, sia nel linguaggio, abbandonandosi a lunghe invettive condite da un gergo triviale, sia nei sotterfugi utilizzati per ottenere ciò che desidera, ossia la compagna di classe di cui è innamorato, ma che reciterà la parte di Biancaneve nella recita scolastica con accanto un altro Principe.

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Le riprese sono effettuate dal regista con la macchina a spalla e il risultato sono immagini spesso grezze utili nella resa della realtà raccontata; sorprendenti le doti attoriali del piccolo protagonista. Nella primissima parte il racconto scorre lento, al limite con la stasi, per poi regalare non troppo tardi dei picchi di ilarità che fanno ben sperare sulla continuazione; in realtà, sorge il dubbio che gli scambi umoristici che si susseguono siano solo un modo per dilatare una sceneggiatura un po' povera ed accompagnare lo spettatore agli unici tre episodi che rimangono impressi alla fine del film (e che hanno scosso ed agitato animi di spettatori e animalisti sia in sala che nei media): i tre cruenti combattimenti tra cani organizzati dagli adulti del villaggio.

Il piccolo Aslan già influenzato dall'asprezza dei luoghi e degli animi da cui è circondato sembra inizialmente essere la metafora della possibilità di elevarsi da contesti e inclinazioni a cui si sembra socialmente destinati. Ma il bambino in pochissimo tempo chiude bruscamente lo spiraglio di umanità che si era aperto in lui e cede facilmente il passo a quell'uomo bruto che fin dalla nascita è chiamato a diventare.

È difficile giungere a un giudizio complessivo che non vada fianco a fianco con una riflessione morale: la storia di un bambino cresciuto in una società rurale che emerge dalla crudezza della stessa alla ricerca di una più raffinata sensibilità, avrebbe avuto sicuramente un effetto meno sorprendente sul pubblico. Riesce più facile accettare l'idea che l'unico intento del regista fosse quello di colpire e lasciare il segno con la sua prima opera, senza alcun intento moralistico; diversamente, si potrebbe solo pensare a una totale sfiducia nell'autodeterminazione dell'essere umano e in un pessimismo che abbraccia l'idea di una predeterminazione della coscienza e della sorte di ognuno connaturata alla società. Male, purché se ne parli? Sicuramente sono in tanti ad aspettarsi che a parlare sia il regista, soprattutto in merito alle scene dei combattimenti tra cani, fin troppo realistiche per sembrare irreali.

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