Yves Klein, Salle du Vide (Void Room), Museum Haus Lange, (1961)

Senza titolo, o l’arte di non leggere

Dalla pipì di Sehgal alla lezione di Schopenhauer a Contemporanea 2015

A volte, senza volerlo, ci riscopriamo testimoni di eventi curiosi. Una rissa, un flash mob, un cataclisma, qualcosa di insolito che a raccontarlo molto probabilmente susciterà l’interesse altrui. Ma perché raccontarlo? Fondamentalmente, le ragioni sono due: o la cosa ci ha particolarmente colpito e sentiamo l’urgenza di condividerla con qualcuno; oppure ne intuiamo l’eccezionalità, il potenziale attrattivo, per cui raccontarla ci farà apparire speciali a nostra volta. Insomma, la prima ragione ha un valore puramente privato, la seconda sociale.

Ora. Che l’uomo insegua l’apprezzamento e l’ammirazione altrui non è un fatto nuovo, ma da quando è subentrata la grande allucinazione collettiva chiamata democrazia (che lo è solo di nome ma non di fatto), la gloria si vende a buon mercato; con l’avvento dei social network, poi, l’offerta non sazia mai la domanda. Tutti, tutti quanti vogliono apparire. A ben guardare, infatti, chi si ostina a ragionare ancora in termini di “masse” fa un grave errore, dimostrando di non aver compreso la cosiddetta natura “liquida” della società del XXI secolo (per lo meno italiana). Perché? Perché oggigiorno la distinzione per “classi” risulta alquanto obsoleta, anzi, lo stesso concetto di classe in sé si è svuotato di quella stessa evidenza che si poteva riscontrare nei primi decenni successivi al secondo Dopoguerra.

Basta guardare agli odierni esponenti di spicco del mondo dell’impresa, della politica o dello spettacolo, che, non fosse per la disponibilità economica e/o il successo, a malapena si distinguerebbero dagli altri strati della società – non risaltano certo per la capacità dialettica, per la cultura, per il buongusto, o fosse anche per quello che un tempo si chiamava portamento. Possiamo notare, piuttosto, come prevalga un dozzinale provincialismo; per cui ci si sfoga indistintamente su Facebook, ci si insulta su Twitter, ci si mostra su Instagram o Youtube: tutti costantemente tesi ad apparire, a far sapere agli altri che ci siamo, che meritiamo attenzione, che abbiamo qualcosa da dire. Ma qualcosa da pensare lo abbiamo ancora?

È chiaro, insomma, che in tale contesto, ormai, la comunicazione giochi un ruolo fondamentale. Il fatto curioso, però, è che quello che inizialmente poteva essere uno scoglio si è trasformato nella soluzione stessa. Vale a dire. Se il tarlo principale di un comunicatore (di qualunque tipo) era “come posso comunicare il mio cosa?” (informazioni, messaggio, ecc.), ora, trovato il metodo accattivante per attrarre l’attenzione, la situazione si è ribaltata nell’esatto opposto, cosa posso comunicare con il mio come?”.

Il sensazionalismo sta corrodendo la nostra capacità critica, i legami sociali, la comunicazione quotidiana. Lo possiamo vedere già a partire dal decadimento della carta stampata: un giornalismo sempre più ammiccante, enfatico, partigiano; per non parlare delle testate online di informazione con il maggiore livello di indicizzazione, in cui pur di raccogliere “mi piace” e condivisioni gli articoli si gonfiano di superlativi, polemiche, segreti di Pulcinella e tanta sterile retorica.

È successo, ad esempio, recentemente a Prato, in occasione del prestigioso Festival Contemporanea. Sul Bastione delle Forche, lo scorso 3 ottobre, è andato in scena (Senza titolo) (2000), l’excursus in nudo della storia della danza del Novecento, firmato dal coreografo Leone d’Oro alla 55^ Biennale di Venezia Tino Sehgal, che già quest’estate, al Festival di Santarcangelo, dalla stampa locale era rimbalzato qua e là fino alla nazionale accompagnato puntualmente dalla parola scandalo. È successo di nuovo, non durante ma alla fine dello spettacolo, ascoltando per caso la telefonata di un cronista del secondo quotidiano locale più letto in Toscana, il quale chiamava in redazione per dettare l’ “attacco” del suo articolo (evidentemente già scritto prima ancora di vedere lo spettacolo) che puntava totalmente, ancora una volta, sul presunto scandalo – tre minuti su cinquanta di performance –, “scandalo” che poi altro non è se non una citazione del coreografo Jérôme Bel. Così, esce il pezzo (con foto, fra l’altro, non autorizzate), e neanche a dirlo sulla rete subito si scaldano gli animi. Ma attenzione, non c’è da sorprendersi, né da indignarsi più di tanto. Il fatto davvero interessante è un altro: tempo trentasei ore e già tutto è dimenticato. Ancora una volta: il cosa ormai non importa più, conta soltanto il come.

Ritorniamo, allora, al punto di partenza. Perché raccontare qualcosa? Per condividerlo o per apparire? E quanto può durare mai questa apparenza? Certo non si può delegare tutta la responsabilità, e le colpe, al mondo della comunicazione. Alla questione si aggiunge, infatti, un problema ancora più profondo: perché il lettore dedica il suo tempo a notizie del genere? Cosa cerca?

Ben più importante della fama e del denaro, è il tempo, il tempo non lo si può riguadagnare. Scriveva Schopenhauer: «L’arte di non leggere è assai importante. Essa consiste nel non prendere in mano quello che in ogni momento occupa immediatamente la maggior parte del pubblico. La condizione per leggere le cose buone è di non leggere roba cattiva: poiché la vita è breve, il tempo e le forze sono limitati».

Inseguire un participio passato come il successo (proprio o altrui, cioè in maniera attiva o passiva) è innanzitutto rinunciare a prendersi cura di sé, vivere in relazione all’opinione altrui, delegare il proprio tempo, cioè la propria vita, a qualcun altro. Insomma, non vivere. Allora, anziché indignarsi o gridare mala tempora solo per farsi sentire, non sarà più efficace negare la nostra attenzione a chi non la merita?

L’unico potere che gli altri hanno su di noi, d’altronde, è quello che concediamo loro.

Ascolto consigliato

Contemporanea Festival, Prato – 3 ottobre 2015

In apertura: Yves Klein Salle du Vide, Museum Haus Lange, (1961)

Grazie


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