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Poesia e Luce – Mirò

Appartengo a coloro che nel valore della cultura ci credono. A coloro che l’hanno resa non una semplice passione (ci tengo a precisare che ciò è avvenuto, sciaguratamente, per inclinazione naturale e non per deliberata scelta: nella seconda ipotesi sarebbe facile ravvisare della pazzia), bensì un modus vivendi germogliato dal bisogno di assecondare la curiosità, sostenere il senso di irrequietezza.

In momenti come questo caratterizzato dalla crisi economica, quando si fanno delle scelte che implicano il dispendio di energia e di tempo, inteso anche nella sua eccezione economica, si avverte forte il senso della responsabilità; la passione si depura dagli elementi superficiali, ne rimane il nucleo primogenito, quello autentico. Personalmente la bramosia di sapere non si è attenuata anzi…sarà che nutro la ben radicata convinzione che non saremmo giunti a questa condizione se si fosse arginata, se si fossero eretti margini di contenimento alla macchia d’olio dell’ignoranza, lasciata libera d’agire, come un tarlo, corrode il materiale celebrale. Ma adesso basta divagare su questioni che finiscono sempre per scadere nella retorica, scendo subito nella mondo fattuale per raccontarvi la mia visita alla mostra di Mirò che si sta tenendo a Roma, intitolata “Poesia e Luce”.

Il chiostro del Bramante è un luogo incantato: dietro piazza Navona risulta una nicchia nel caotico centro della capitale. La mostra dedicata all’artista spagnolo è pubblicizzata in ogni angolo della città, tutte le fermate dei bus riportano il manifesto, tutti i giornali ti suggeriscono di andarla a vedere, cartelloni affissi per le strade ti convincono che una tappa ce la devi fare: zero pigrizia! Insomma le aspettative sono alte, anzi altissime dato il clamore mediatico. L’architettura rinascimentale dell’ingresso non fa che gonfiare la fiducia. Il primo dissapore inizia alla biglietteria: 12 euro il prezzo del ticket intero, 10 se hai la fortuna di possedere i requisiti per la fascia ridotta. In un periodo in cui l’economia non gira mi pare eccessivo! Ciò che mi si para dinanzi è un’accozzaglia di tele, disposte alla rinfusa senza ordine che sia cronologico o tematico (non provate ad eccepire che si tratta di caos costruito ad hoc, in questo caso la mia camera gode di maggiore artificio artistico nel disordine).

I quadri non presentano etichette che li rendano individuabili; le luci, importantissime nell’organizzazione di una mostra, creano delle fastidiose ombre che offuscano la vista; gli ambienti sono poco curati e sporchi. Cammino confusa, inizio a dubitare che abbia subito una metamorfosi in vecchia zitella polemica ma non è così: senza ombra di dubbio (ma con troppe, inopportune ombre) scorgo nell’ultima sezione la ricostruzione dello studio di Mirò, adibito come se fosse uno stanzino con suppellettili vecchie, sullo sfondo la fotografia dell’originale che non ha niente a che vedere con il rifacimento.

Finalmente esco nel patio dove echeggia musica bossa nova e donzelle in minigonna e tacco a spillo stanno allestendo una aperitivo per il lancio di un marchio di orologi. Nutro la certezza di essere finita nel posto sbagliato, nel momento sbagliato: neanche il tempo di sorseggiare un caffè, voglio scappare! Per giorni ho pensato e ripensato, oserei dire rimuginato su quel pomeriggio romano, sulle speranze prima dell’ingresso e sull’umore a terra all’uscita. Ma soprattutto ho riflettuto banalmente su quante volte mi è capitato di entrare per caso in una mostra allestita da ragazzi a cui nessuno darebbe una lira per uscire con occhi trasognanti, e di come frequentemente mi stia invece accadendo l’esatto contrario.

Sarà questa la conclusione di un teorema che vede come condizioni iniziali la mancata partecipazione delle nuove generazioni e l’assenza di meritocrazia?


Grazie


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