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Paul Delvaux: L’incomunicabilità come misura dell’esistenza.

Si è conclusa il mese scorso, presso la Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo (Parma), la mostra che ripercorre le fasi dell’esperienza artistica del pittore belga Paul Delvaux, che affiora timido tra i nomi celebri del surrealismo. Movimento d’avanguardia con il quale avrà sin da subito un rapporto di rottura e continuità, così profondamente influenzato dalle suggestioni classiche e metafisiche di De Chirico, dichiarato maestro ispiratore.

La Bruxelles degli anni della formazione accademica, in piena rivoluzione industriale, si trasferisce nell’atmosfera luminosa dei primi tram elettrici così come in quella decadente dei treni e delle stazioni che vediamo nei suoi lavori iniziali. Ma è nelle opere della maturità che Delvaux ci rivela il profondo senso dell’esistenza umana in tutte le sue manifestazioni. E si prova come una specie di nostalgia, davanti ad un suo dipinto, una mancanza distratta, propria di chi ha compreso una verità connaturata ma indefinita. Così ti senti davanti alla Venere Dormiente, animale in vetrina, sospesa in una finta gaiezza arresa allo sguardo famelico dei suoi spettatori. Senso di colpa, paura e fascinazione sublimati in un corpo enorme, allegoria di un significato perduto dinnanzi al quale il desiderio dell’uomo non può che rimanere silenziosamente insoddisfatto.

Anche sola, la donna, sarà al cospetto del suo “io” (Le femmes au mirror e Le rivales) terribilmente estraneo, sconosciuto e profondo. Perché ciò che lo specchio riflette non è che annullamento, vuoto. Con i loro occhi scuri e alienati, come in preda a rivelazioni orfiche, le sue creature sono le sole al mondo ad avere la chiave per la conoscenza del sé. Immerse a tal punto nel loro contesto, che tutto sembra pervaso dal medesimo sentimento interiore. Dalla celebrazione dell’eterno femminino si passa a quella dell’Uomo-Scheletro, che non è memento mori, bensì corpo plastico, denominatore comune di tutti gli esseri viventi. Se i grotteschi scheletri di Ensor rappresentavano i morti della società, quelli di Delvaux, immersi nel proprio spazio tempo, sono il simbolo della vita pulsante.

La rivelazione che segnerà la fase terminale del suo lavoro, sarà l’incontro con la metafisica, meglio ancora, con quel classicismo che stabilizzerà in modo definitivo il suo mondo onirico. Prospettive e architetture geometriche diventano i nuovi spazi delle sue figure, comunque sospese tra immaginario e realtà. Tra tutte campeggia l’enorme dipinto de Il Dialogo, in cui ognuna delle parti dialoganti sembra, al contrario, perdersi nel corrispettivo mondo immaginifico. Perché basta uno sguardo, un accenno di follia, e realtà intelligibili diventano improvvisamente incomprensibili e lontane. Ma Delvaux va oltre, rappresentandone addirittura il momento culminante, il punto di inversione. Quello scarto, vuoto interpretativo, in cui risiede il Nulla. E se fosse presente con i suoi occhi vivaci ci indicherebbe che è proprio li, nell’Enigma, la misura di una rassegnata serenità.


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