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Paper Street intervista i Nobraino

I Nobraino chi pensano di essere?

(Ci pensano, ridono – ndr) I Nobraino sono un gruppo con un’invidiabile costanza! Ognuno di noi vede il percorso che stiamo facendo e si chiede come si possa resistere perché è dura. I Nobraino stanno insieme da vent’anni, è un matrimonio che sta reggendo e questo in sé può stupire perché siamo in un periodo in cui viene suggerita la disgregazione e alla lunga un po’ tutti ci stanno credendo.

Ascoltando la vostra musica si accende l’immagine di un gruppo proteso a sfondare le porte del mondo ma che allo stesso tempo non vuole rinunciare a fare ritorno a casa, che non vuole tagliare in tutto il cordone ombelicale.

Innanzitutto noi non percepiamo il successo perché abbiamo un’esperienza in crescita ma lenta e costante. E’ stato tutto gradino per gradino, volta per volta e anzi forse li abbiamo fatti sempre in ritardo gli scalini, per cui tutte le volte era naturale essere dove eravamo e questo ci ha aiutati a rimanere abbastanza noi stessi. La provincialità è una caratteristica che noi abbiamo sempre voluto avere, del resto sarebbe assurdo voler fare gli uomini di mondo quando in realtà abbiamo vissuto sempre la nostra Romagna. In questo modo portiamo quello che siamo e penso che sia questa la cosa che dovrebbero fare un po’ tutti, nel senso: perché portare globalità nel mondo che è già globale? Ha più senso che uno porti la sua visione, le proprie radici in un discorso globale!

Un sogno che avete realizzato ed uno ancora nel cassetto?

Vivere di musica è quello che sognavamo da ragazzini quando abbiamo iniziato a suonare e, soprattutto in questo momento storico, lo consideriamo un lusso oltre che qualcosa che può ispirare gli altri, in particolare tutti quei ragazzi che adesso magari si stanno battendo perché manca lavoro. Fare quello che facciamo con passione è una cosa realizzata. Altri sogni nel cassetto li abbiamo ma non te li diciamo, altrimenti poi non si avverano.

Comprensibile che non mi vogliate dire un segreto ma almeno sbottonatevi su qualche progetto futuro…

Iniziamo a fare un disco questo mese. Staremo in studio a registrare questo disco che uscirà nel duemilaquattordici poi a giugno, luglio, agosto e settembre giriamo l’estivo con le date ed infine aspettiamo l’uscita del prossimo album.

Avete all’attivo cinque album, tanti tour in giro ed un’esperienza longeva. Qualcosa da recriminare alla scena musicale italiana?

In questo momento c’è da pensarne molto bene ma è piccola. E’ piccolissima perché l’Italia è piccola, questo è il problema! Sennò andrebbe molto bene: c’è tanta verve. Prima, quando noi abbiamo iniziato, c’era la tendenza della band ad uniformarsi a quello che il mercato voleva e la gente era già disciplinata a ciò che andava ad ascoltare. Invece adesso c’è un vivaio abbastanza tangibile rispetto a prima. Adesso l’indie è figo, va di moda fortunatamente. Però deve diventare europeo come movimento cioè i giovani italiani devono venir fuori.

Un nome dal vivaio?

I Kutso. Lui magari te ne vuol dire un altro (incalza Lorenzo ed interviene Nèstor, ndr). Il Duo bucolico: uscirà con un disco fatto bene, fanno dei live esilaranti.

Indossate abiti a.n.g.e.l.o. (uno dei più famosi collezionisti vintage): perché vi sentite una certa sensibilità retrò oppure è una scelta dettata da altro?

Francamente sul palco abbiam messo a fuoco che è più divertente andarci un po’ travestiti perché lì deve succedere altro da quello che succede sotto il palco. E il costume è sicuramente una via per parlare dell’uomo. La scelta in sé dello sfiorare anche a volte il ridicolo è proprio dettata da una critica molto banale, cioè siamo tutti scimmie quindi una scimmia in giacca e cravatta è ridicola quanto una scimmia in salopette di gomma e cappellino; per cui, posto questo presupposto di base, noi scegliamo di andare sul palco così. Il rapporto con a.n.g.e.l.o. è venuto abbastanza spontaneo perché anche lui è romagnolo. A.n.g.e.l.o. ha sempre lavorato su questo concetto un po’ estremo del costume, del riciclaggio che è una cosa stimolante, perché andare a spendere migliaia e migliaia di euro in vestiti? Il concetto di moda è diventato molto fastidioso invece il concetto di riciclare, di prendere pezzi che trovi nell’armadio dagli una cucita e c’è tutto questo gioco sul costume che in realtà viene proprio da una coscienza che il costume è qualcosa da rivedere e di cui parlare sicuramente.

C’è un brano che vorreste urlare a squarciagola qui, oggi, in occasione della festa dei lavoratori e davanti ad un pubblico che si presume sia incazzato?

Non lo sappiamo. Sono tutti rinnegati da tremila anni di soprusi e quelli che vanno al primo maggio sono tutti sfigati per la vulgata comune. Non ce la sentiamo di dirne una e quello che facciamo abitualmente va benissimo. Nel senso che noi abbiamo la fortuna enorme che ci invitano alle feste a suonare. Il nostro compito è quello di andare di compassione, cioè sentire quello che la festa sta sentendo. Per quanto riguarda il dare messaggi non lo sappiamo: in questo momento la politica italiana ha talmente distrutto l’idea di dare messaggi che io starei zitto e farei il mio lavoro in maniera convinta (chiude Nèstor Fabbri, ndr).

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