NO LIMITES -

Nos limites – Radhouane El Meddeb

“La morte è la nostra eterna compagna. È sempre alla nostra sinistra, a un passo di distanza. Ti è sempre stata a osservare. Ti osserverà sempre fino al giorno in cui ti toccherà.”

Così parlava la saggezza di don Juan a Castaneda in Viaggio a Ixtlan. Forse più di tutti, gli acrobati sanno cosa vuol dire guardare la morte in faccia. Sicuramente lo sapeva il trapezista di fama mondiale Fabrice Champion, che la morte l’aveva sfidata per tutta la vita, trovandola infine in un rito sciamanico – la possibile ricerca di un senso dopo il tragico incidente del 2004 che l’aveva reso paraplegico. Così, l’eredità commossa di Nos Limites, spettacolo di “tetradanza” a cui Champion stava lavorando con due tra i suoi allievi più promettenti, è lasciata al coreografo tunisino Radhouane El Meddeb, che porta a termine un omaggio toccante al maestro, il cui spirito riecheggia in ogni elemento della coreografia. A cominciare dalla rinuncia all’uso delle gambe.

La scena è spartana: un luminoso tappeto bianco circondato da pavimento nero e agli angoli opposti due uomini, come se dopo una tragedia si ritrovassero all’origine di sé stessi, a ricostruire la propria Genesi. Il contrasto fra il buio e le tenebre della scenografia non fa che prolungarsi nella fisicità stessa dei danzatori: Alexandre Fournier è alto e pallido, mentre Matias Pilet è più piccolo e scuro. Un lungo abbraccio iniziale suggella da subito un patto di fratellanza fra i due e ha inizio così una danza su un piano orizzontale ma che tende inesorabilmente verso la verticalità.

In religioso silenzio, i due danzatori si muovono nello spazio lentamente, strisciando, facendo leva ora sulle braccia, ora sulla pancia; esplorano le nuove possibilità del corpo trascinando le gambe inarticolate e penzolanti, in un continuo scontro dialettico tra inerzia e tensione muscolare. Forse sono due fratelli che giocano per le strade della propria infanzia, il più piccolo che emula il più grande con movimenti giocosi e speculari.

Più i corpi si conoscono, più il movimento si fa complesso, quasi erotico. C’è contatto e repulsione, proteggere e sollevare, cullare e scaraventare via. Cercano lo sguardo e la complicità. Perché essere acrobati vuol dire innanzitutto avere il coraggio della fiducia, in se stessi e nell’altro, affidarsi totalmente, amarsi e amare, conoscere i “limites” del corpo, che altro non vuol dire che conoscere i limiti di sé stessi e, soltanto a quel punto, superarli.

E proprio quando il pubblico si era abituato al rumore del silenzio, ecco che la voce inconfondibile di Billie Holiday irrompe in scena con Yesterdays, mentre Matias Pilet si esibisce in un’ultima sequenza che mescola danza e acrobazia. Ora il meccanismo sembra invertito: la condizione di verticalità porta irresistibilmente a cadere a terra; in fondo, come nella vita. Days I knew as happy sweet/ Sequestred days, tutti i giorni passati delle battaglie perse, perché siamo tutti guerrieri che lottano contro un continuo dis-equilibrio di cadute e risalite. E come direbbe don Juan: “L’arte del guerriero sta nel bilanciare il terrore di essere uomo con la meraviglia di essere uomo”.

Per approfondire, leggi anche:
Acrobates, di Giulio Sonno

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