Te piace ‘o presepe?
Non c’è bisogno di essere un grande frequentatore di teatro per aver sentito almeno una volta questa frase, ma forse per coglierne la profondità nascosta servirebbe qualcosa di più, o meglio, serviva, perché dopo la messa in scena di Antonio Latella non si potrà più pensare a Natale in Casa Cupiello come a una semplice e deliziosa commedia popolare.
E si parte proprio da qui, dal recupero dell’invisibile, dalla rottura degli stereotipi sul teatro dialettale, dall’emersione del perturbante (unheimilich) e dell’allegoria; insomma, dalla liberazione di De Filippo da Eduardo.
Il sipario si apre e troviamo tutti i personaggi schierati in fila, a un passo dal proscenio: avvolti in abiti scuri, più da morto che da lutto (costumi Fabio Sonnino), e con lo sguardo coperto da una mascherina per dormire, recitano in coro le didascalie originali che Luca Cupiello/Eduardo, unico vestito di chiaro, (tra)scrive con una mano nell’aria. Non una sola riga, infatti, verrà sottratta al dramma, neanche il verso degli accenti, a mancare sarà piuttosto la confortante cornice “teatrale”: niente movimenti, pantomime o arredi di scena, solamente due note sospese di pianoforte (musiche Francesco Visioli) e un’imponente stella cometa di fiori (scene Simone Mannino e Simona D’Amico) che incombe splendente e inquietante alle spalle delle dodici statuine viventi.
Poco a poco, tutti i presenti (tranne uno) scopriranno gli occhi e pronunceranno battute e didascalie del proprio personaggio senza tuttavia muovere un passo. Latella, dunque, per il primo atto opera un doloroso ma necessario distacco dal familiare (heimlich, per l’appunto), per scaraventare il pubblico, apparentemente preparato, in una lotta alla disillusione con il testo eduardiano. Te piace ‘o presepe?
Un’ora, così, scivola via: la gremita platea delle “prima” pomeridiana, abbonati e non, fatica ma resiste; le defezioni si contano sulle dita di una mano, pochissimi i colpi di tosse e le caramelle scartate.
Secondo atto. La stella risale in cielo, appuntata sulla scena, dove non possiamo vederla ma ormai sappiamo che c’è. In una concettuale traversata del deserto – in cui affiora sempre più il dubbio se Luca Cupiello sia San Giuseppe oppure il nascituro messia – Concetta Cupiello/Maria traina letteralmente sulla scena il carrozzone domestico: al suo interno Luca, ossessionato da quell’impossibile presepe famigliare dove la colla è sempre fredda e il caffè lasco, si arrabatta nella sua dimensione interiore, una camera iperbarica da cui tutto traspare ma nulla vi accede. Stavolta l’allegoria, infatti, diventa più esplicita e il perturbante si declina nel tragi-grottesco: ogni personaggio, ora libero di muoversi nello spazio (pur sempre gravitando attorno al carro), entra in scena con un suo “doppio” in forma animale, non uno spirito guida però, bensì una proiezione presepiale, che enfatizza il ridicolo e il tragico di quel Natale mancato.
Nonostante il nome del dramma, infatti, bisogna tenere a mente che quel giorno dispari eduardiano, sempre evocato quasi fosse la proiezione collettiva di una “riunione” impronunciabile, rimarrà comunque fuori dal testo e dalla scena. Il presepe tentato, così, imploderà in un’impossibile armonia e tutti gli alter ego bestiali saranno ammassati e caricati via in quel veicolo famigliare che, ormai, sembra soltanto un carretto funebre. Te piace ‘o presepe?
Intervallo, cambio scena. È piacevolmente sorprendente notare quanti spettatori si radunino in gruppetti a discutere dello spettacolo, avanzando domande, interpretazioni, confronti. Sono trascorse due ore, ma nell’aria c’è più curiosità che stanchezza.
Il Venticinque dicembre è passato, nessuno però sembra averne varcato la soglia; ecco allora che quel “dopo” si trasforma in un Natale al negativo, ovvero in una veglia funebre. Al centro della scena, ora, in una culla spartana, Luca ci appare come un emaciato Gesù Cristo non tanto “appena nato”, piuttosto “appena deposto” dalla croce. Con ali d’angelo e chiave al collo, cala dall’alto il portiere del palazzone (il cui nome, non a caso, è Raffaele – l’arcangelo della guarigione) che come un araldo celeste sopra Berlino fa da megafono alla vox populi del vicinato raccoltosi in casa Cupiello; mentre, in abiti monacali e gonna in crinolina, Concetta (sempre più Maria michelangiolesca) attende l’arrivo del medico. Questi, l’unico ad aver infestato per tutto il tempo lo spettacolo senza mai togliersi la mascherina dagli occhi, finalmente può posare lo sguardo su tutti, e in un canto operettistico, nell’ennesima inversione di toni e registri, rivelare la vera identità-ragione della sua presenza: uno spettro di morte che come il freddo vento natalizio ha soffiato il suo alito gelido sulle imposte della casa (luci Simone De Angelis). Quando, infine, per l’ultima volta, Luca chiederà a Nennillo “Te piace ‘o presepe?”, il “sì” escogitato da Latella sarà sconvolgentemente disarmante eppure, a suo modo, inevitabile, quasi che ognuno degli spettatori, in fondo, non potesse aspettarsi altro. Ma il “come” di tutto ciò è meglio rimandarlo alla visione a teatro.
Quella offerta dal regista campano, dunque, è una trasposizione globale e intensa, che restituisce umori e risvolti profondi di uno dei più grandi e, in un certo senso, sottostimati capolavori della drammaturgia italiana di ogni tempo. Una rappresentazione che intreccia le diverse componenti sceniche in un affresco totale dove anche le interpretazioni magistrali di Monica Piseddu e Francesco Manetti non cedono mai all’istrionismo ma, misurate, si intrecciano efficacemente nel tessuto di questa rilettura (drammaturgia del progetto Linda Dalisi), che, pur nelle sue occasionali smagliature, mostra trame nascoste, ricami inaspettati e nodi dolorosi troppo duri da sciogliere.
Il variegato pubblico dell’Argentina, dal canto suo, sia chi si alza subito per applaudire in piedi sia chi lascia il posto per uscire alla svelta, ha sul viso i segni di un perturbamento che sta agendo in profondità: poco importa se ne parlerà poi entusiasta o borbottante, perché sicuramente tornerà a casa molto diverso da come vi era uscito.
E in fondo cosa si può chiedere di meglio a uno spettacolo se non di abbandonare il palco e affollare i pensieri dei suoi spettatori di domande senza risposta?
Te piace ‘o presepe?
Ascolto consigliato
Teatro Argentina, Roma – 4 dicembre 2014
In apertura: Foto di scena ©Brunella Giolivo