Foto di scena ©Brunella Giolivo

La doppiezza del Male

A.H. di Antonio Latella

A.H.
Una sorpresa.
Una risata interrotta.
Un intervallo lungo sette passi d’alfabeto, sette giorni di creazione.
Si comincia dalla lettera ebraica che segna l’avvio della genesi: בּ, beth, un punto sospeso nel centro di un quadrato aperto a occidente, una potenza sconfinata immersa nel vuoto, un paio di baffetti crudeli che non hanno più volto.
A.H.
Adolf Hitler.
In principio era il verbo e il verbo era menzogna.

Solo, vestito di un bianco fragil-candido da deturpare, Francesco Manetti si presenta in scena come demiurgo e marionetta, cantore di una parabola di perdizione. Si parte dal libro della Genesi, si attraversano gli orrori dell’Olocausto, e ci si interroga sul presente, tentando di rintracciare la causa prima di ogni male. Se un’ora più tardi Roberto Latini nei panni di Cotrone ricorderà che l’unica verità possibile è quella che inventiamo, il testo presentato da StabileMobile (Federico Bellini, Antonio Latella) comincia dalla menzogna. Una menzogna assai sottile, però, doppia: quella di chi il male lo infligge, e quella poi di chi il male lo commenta – una distrugge, l’altra sfigura.

«Se c’è un assassino nella tua città, la colpa è anche la tua», scriveva Gibran.

È una stratificazione di segni e significati quella offerta da Latella che si dispiega attraverso il sapente uso della ripetizione: un esercizio di tempo consapevole che nell’esasperazione dell’attesa mostra l’origine e la manipolazione di ogni cosa. Così, ad esempio, la lettera «beth» – principio dell’essere – viene prima dipinta su un grande foglio di carta con una sacralità da ideogramma orientale, poi lentamente e meticolosamente smembrata in centinaia di pezzi, infine lanciata, più tagliente di uno schiaffo, sul pubblico spazientito: «5 milioni 827 mila 60», prorompe Manetti (gli Ebrei vittime dei lager). Provatevi a lamentare.

Foto di scena ©Brunella Giolivo

Foto di scena ©Brunella Giolivo

Poco più avanti una nuova reiterazione in tre tempi: ascoltiamo il vertiginoso elenco delle armi che gli uomini hanno costruito per distruggersi: prima se ne ode solo il nome, poi il rumore, infine l’espressione di chi sotto quei colpi è caduto. Un’accumulazione che porta consapevolezza, dunque, fatti eloquenti che rifiutano la menzogna del commento. Eppure non basta ancora; perché all’azione esasperatamente dilatata si aggiunge il contrappunto ironico (che probabilmente segna la vera caratura dello spettacolo): un nuovo numero per il pubblico, “71 810 910” (forse le vittime delle guerre nel mondo), seguito immediatamente dalla pantomima di un soffio di fumo. Ed ecco allora che, imbarazzante e inevitabile, giunge il collegamento fra due menzogne mortifere: la guerra e il cancro. Cosa cambia? Cos’è peggio? Qual è il vero volto del male?

Foto di scena ©Brunella Giolivo

Foto di scena ©Brunella Giolivo

 

Nonostante l’accostamento un po’ farraginoso dei diversi quadri, A.H. è uno spettacolo che riesce a incutere il giusto grado di disgusto per l’inquietante doppiezza che si nasconde nell’anima dell’uomo. La discesa perversa incarnata dallo sbalorditivo Manetti, però, è una traversata che non si compiace di indugiare nel sordido e che se turba lo fa solo per scuotere intimamente.

Foto di scena ©Brunella Giolivo

Foto di scena ©Brunella Giolivo

Il sacrifico cristiano dell’epilogo, quasi una tabula rasa di tutto l’orrore mostrato, ci ricorda l’inutilità e al contempo la responsabilità di tanta distruzione: un congedo tutt’altro che cupo, che come sottolinea lo sfondo musicale delle note di Antony and the Johnsons non manca di aprire spiragli:

And I find Hitler in my Heart, from the corpses flowers grow.

La Pelanda, Roma – 9 settembre 2014

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