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La nostalgia dell’assenza, o della solitudine

La nostalgia è un sentimento che porta con sé il peso di un’assenza di qualcosa che abbiamo inevitabilmente perso – una persona, un luogo, uno stato d’animo. Ma si può provare nostalgia per ciò che non è mai successo? In fondo, siamo tutti il risultato di esperienze mai vissute: strade che non abbiamo preso, occasioni perse, opportunità non concesse; e la solitudine forse è proprio nostalgia di persone che non abbiamo mai conosciuto. Sembra che tutto quello che non siamo stati continui a seguirci: da qualche parte esiste ancora, ci rende quel che siamo e, paradossalmente, ci manca. La sesta giornata di Short Theatre si rivela la più introspettiva, con spettacoli che indagano il difficoltoso “stare al mondo” dell’uomo contemporaneo.

Gianni – il protagonista dell’omonimo studio scritto, diretto e interpretato da Caroline Baglioni (produzione La società dello spettacolo) – ha nostalgia di una vita che non ha mai vissuto. Un’esistenza spezzata dalla malattia mentale quella dello zio dell’attrice, che offre lo spunto per raccontare una storia domestica eppure universale di disagio ed emarginazione di chi sfugge ai canoni di percorsi imposti. Gianni è ritratto mentre registra la sua voce su nastro, quelle stesse cassette che la giovane artista ritroverà per caso vent’anni dopo. Con parole schiette, genuine, di un’ironia limpida, cadenzate da un lieve accento umbro, Gianni racconta i suoi pensieri, la sua malattia, le donne che non ha avuto, la vita che poteva essere, in una disperata ricerca di legittimazione da parte di un mondo che non accetta il diverso. La sua ambizione più alta: la normalità – tanto più agognata quanto più negata.

Baglioni non “interpreta” Gianni, fa di più: lo anima dall’interno, filtrandolo attraverso la propria sensibilità squisitamente femminile, creando un’efficace partitura fisica e gestuale – una qualità di movimento che si fa simbolo e mai descrizione. Si muove nello spazio indossando scarpe spaiate, prese dal mucchio che all’inizio ha scaraventato in scena. C’è allora un disequilibrio, nel corpo come nella mente, quello stesso che porterà Gianni al suicidio e al ritrovamento del suo corpo da parte dei familiari.

Il Homologia (regia Alessandra Ventrella) c’è invece la nostalgia di un presente che non esiste, perché è atrofizzato. In scena un uomo anziano (Rocco Manfredi) – come palesa la maschera che indossa – solo, accompagnato soltanto dal rumore assordante della televisione; il ritratto tristemente attuale di un’esistenza dimenticata come tante. Ma ecco che un tonfo inaspettato vicino alla quinta sembra promettere un cambiamento: il vecchio rientra infatti con un manichino (Riccardo Reina), finalmente una possibilità inaspettata di compagnia, un rimedio contro la solitudine di una vita fatta di giorni tutti uguali. Ha inizio allora un valzer dove uomo e marionetta interagiscono, si confondono, si scambiano di ruolo. E allora, come suggerisce il titolo, cos’è che rende gli uomini omologati? Forse la consapevolezza che gli esseri umani, in fondo, desiderano tutti le stesse cose, prima fra tutte un bisogno congenito di compagnia. Forse è nella routine alienante di gesti meccanici o, ancora, nella vecchiaia che la condizione umana trova una comune convergenza; come nel finale, in cui gli attori indossano la stessa maschera rendendosi di fatto indistinguibili.

La compagnia Dispensa Barzotti, giocando sulla linea di confine tra onirico e quotidiano, vita e morte, artificio e realtà, è fautrice di un teatro di figura che predilige l’incanto della maschera alla parola: un po’ artisti di strada, un po’ personaggi kantoriani, un po’ prestigiatori; e non solo per i trucchi che utilizzano in scena, ma proprio per la loro capacità di ricreare un’atmosfera rarefatta, sospesa in un tempo altro, complice un silenzio denso di poesia che trasmette la bellezza della semplicità.

Gianni e Homologia: due studi in attesa di sviluppo questi finalisti del Premio Scenario 2015, il primo vincitore del Premio “Ustica” (per l’impegno civile e sociale), il secondo menzione speciale. Primo e ultimo spettacolo della giornata, alfa e omega di un percorso esistenziale che scava nella mancanza, nella solitudine di storie vissute ai margini, ma non per questo meno dignitose o interessanti da raccontare. Perché chi lo dice che per essere felici bisogna omologarsi alle scelte imposte? “Lavorare stanca, incazzarsi pure”, afferma Gianni. Allora tanto vale accettare la vita per quel che è stata, con tutto ciò che non è successo e che avrebbe potuto. Per i momenti di sconforto, c’è sempre la possibilità di cullarsi nella nostalgia, che sia del passato, del presente, o del futuro, come Short Theatre insegna.

(Foto ©Claudia Pajewski || In copertina: Andrew Wyeth Christina’s World, ©MoMA, New York – link)

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