Keep the village alive
La società contemporanea nella danza a Short Theatre 11
Per «mantenere vivo il villaggio», questo il proposito dell’XI ed. di Short Theatre, chiaramente bisogna danzare, altrimenti – come direbbe Pina Bausch – “si è perduti”. Già, perché soprattutto in una società liquida come la nostra la danza è ciò che può provare a ridisegnare i confini tra spazio interiore e spazio urbano, mettendo a nudo l’uomo contemporaneo nella sua alienazione, nei suoi disagi o nelle sue nevrosi; può anche testare i limiti di ciascuno, cercando sempre di spingersi un po’ oltre.
Quattro danzatori (A. Lopes, D. Valadares, M. da Silva Ferreira, V. Fontes) cercano il proprio senso nella contrazione fra umano e urbano nello spettacolo di Marco da Silva Ferreira, Hu(r)mano, in cui si delinea una dialettica fra il corpo e il contesto in cui è gettato: un paesaggio industriale spoglio, in realtà, ma suggerito da vestiti casual e musica tecno martellante a metà strada fra clubbing e rito tribale.
Marco D’Agostin in Everything is ok indaga invece uno spazio interiore che si riflette all’esterno per necessità, dove il corpo si porta addosso i “sintomi” della società contemporanea in cui vive. La sua danza sarà così una sequenza forsennata di movimenti continui e ripetuti, fluidi e impazziti, che forse dànno lo stesso effetto di smarrimento che si prova nel cosiddetto scroll di Facebook, quando all’aprirsi della pagina iniziale siamo bombardati da una serie infinita di immagini senza soluzione di continuità: dai gattini al food porn, dalle guerre alle vacanze. Allo stesso modo, la danza di D’Agostin riflette questa bulimia schizofrenica d’ immagini, stimoli, svaghi di una civiltà superficiale e distratta, che vortica su se stessa e si dimena senza costruire nulla.
In Hu(r)mano, invece, i danzatori provano a costruire una rete capillare di relazioni attraverso il corpo, come quando formano piccole torri umane sperimentando varie combinazioni con i profili dei corpi altrui, con movimenti a scatto quasi come fossero uccelli in gabbia, forse il sintomo dell’alienazione a cui porta vivere nel paesaggio industriale contemporaneo. Attraverso una danza che conserva un gergo di strada trasfigurato in linee astratte, i danzatori cercano così la relazione con l’altro e le possibilità che questo può offrire in termini di connessione, confidenza, diffidenza, perplessità – come in fondo si vivono quotidianamente le relazioni all’interno di una città – terminando il tutto con un sorriso tirato nel finale (un po’ troppo dilungato nel tempo).
Da un lato (Ferreira) c’è quindi un tentativo di uscire da sé per rapportarsi allo spazio circostante, dall’altro, al contrario, (D’Agostin) un movimento solipsistico che infine si ripiega su sé stesso come unica possibile risposta al divorante presente che lo fagocita. La “stanchezza del guardare”, però, da intento drammaturgico può ritorcersi anche contro sé stesso, poiché la stratificazione del gesto non procede per una vera e propria progressione ma resta lì, ferma, come un’istantanea – efficace, vigorosa e ironica – che però dopo un po’ non sorprende più nel suo disegno coreografico e rischia, appunto, di “stancare” lo sguardo.
Dopo la musica elettronica assordante, dopo il movimento frenetico e insensato della società contemporanea, con Pinocchio_leggermente diverso di Virgilio Sieni si approda invece a una dimensione originaria di silenzio e di ascolto, attraverso il piccolo protagonista collodiano che si fa metafora per esplorare una condizione di diversità, o meglio, di angolatura insolita da cui esplorare il mondo. Pinocchio qui non è un burattino di legno ma un danzatore non vedente (Giuseppe Comuniello) il cui viaggio sarà un percorso immaginario vòlto alla conquista di una nuova consapevolezza di sé che comincia davvero dall’essenziale, a partire da un movimento asciutto che più che coreografia è un risveglio ed esplorazione di un tempo nuovo, non cronologico ma più intimo, e dello spazio.
strong> Sieni sfida così l’orizzonte dello sguardo, analizzando in modo struggente come cambia la prospettiva quando questo non può essere ricambiato. Tutto acquista così una valenza inattesa: ogni movimento è una nuova conquista, ogni rumore da interpretare e ogni silenzio denso e gravido, perché non è più così importante quello che si guarda, ma la sua percezione.
Pinocchio s’interroga così su come la danza possa valicare i limiti di contingenze drammatiche; forse però per il burattino di legno non è tanto importante l’elevazione a bambino in carne e ossa, quanto la sua volontà inarrestabile, il suo coraggio di provarci fino in fondo per arrivare infine ad accettarsi nel suo dramma e nella sua gioia.
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La Pelanda, Roma – 9, 10 e 13 settembre 2016