Foto ©Tim Walker

Il Don Giovanni – Filippo Timi

Accentratore e Medium, il mattatore lisergico delle nuove folle

Quante volte Don Giovanni deve avere calcato le tavole del Teatro Argentina nel corso dei decenni? Sotto quante diverse spoglie si dev’essere rinnovata la vicenda del leggendario amatore? Quest’anno tocca al Don Giovanni di Filippo Timi. E a vedere sostanziosi gruppi di spettatori poco avvezzi, per anagrafe e appetiti, all’augusta platea dell’Argentina, un buon risultato il Teatro di Roma sembra averlo già raggiunto, seguendo in questo un trend già notato nelle precedenti repliche dello spettacolo prodotto dal milanese Teatro Franco Parenti e dal Teatro Stabile dell’Umbria.

Basta poco dall’alzarsi del sipario per intuire i capisaldi strutturali: la contaminazione multimediale; l’attualizzazione ottenuta citando e parodiando il tradizionale. Mentre gli altoparlanti diffondono l’inconfondibile timbro di Pavarotti alle prese con I Pagliacci, Timi-Don Giovanni si risveglia dall’ennesima notte di bagordi in una scenografia kubrickiana, compiuta sintesi tra la casa della Signora dei gatti di Arancia meccanica e il boudoir settecentesco enigmatico e terminale approdo dell’eroe di 2001: Odissea nello spazio. Il terzo caposaldo, il più intuibile a scatola chiusa, si rivela non appena il provvidenziale Leporello officia il cerimoniale mattutino: la centralità del mattatore, nello specifico un Timi accentratore di attenzioni, signore e padrone della scena, pronto a non risparmiare nessun effetto speciale, a esibire tutti i registri dell’interpretazione, elevata al cubo dalla autorialità doppia di cui è investito come drammaturgo, scenografo e regista.

Foto di scena ©Achille Le Pera

La vicenda ricalca nell’intreccio la parabola del Don Giovanni di Mozart-Da Ponte: Don Giovanni si barcamena tra le brame di Donna Elvira, la sete di vendetta di Donna Anna, il desiderio per la contadina Zerlina. Ritroviamo tutti i personaggi entrare e uscire dalle quinte girevoli in una parata quasi circense, inguainati in costumi coloratissimi (Fabio Zambernardi in collaborazione con Lawrence Steele), sempre creativamente eccessivi, citazioni distorte di toelette da Opera. L’impianto pop, l’intreccio disseminato di battute a effetto e strizzate d’occhio al contemporaneo, le retroproiezioni tra il trash e il dissacrante, la pervasiva (sempre riconoscibile, sempre volta a ironizzare, contaminare, sovrapporre alto e basso) colonna sonora – termine non improprio, tassello che con la citata scenografia e lo splendido disegno luci (Gigi Saccomandi) va a comporre il deciso impianto cinematografico della messa in scena –, la verve assolutamente felice di tutti gli interpreti, le trovate di regia rendono lo spettacolo riuscito, capace di intrattenere soprattutto il pubblico «nuovo».

Freddine invece le Signore dell’Argentina agli exit poll.

Foto di scena ©Achille Le Pera

«Tutto molto bello», come direbbe l’indimenticabile Pizzul, ma alla fine, dietro tutti gli effetti speciali e i cappottini lisergici, questo Don Giovanni di Filippo Timi che cos’è? O meglio, cosa ci vuole dire? Di che cosa parla Timi quando dice che «vivere è un abuso»? Questo Don Giovanni è, come da copione, disprezzatore delle morali e delle religioni, ricercatore dei piaceri, distorsore delle verità, portatore di disordini. È un ribelle, e come tale è consapevole del suo destino, della pena. Don Giovanni finisce anche questa volta all’Inferno, senza pentimenti, con un certo gusto pure.

Tra i vari finali che la mancanza di parsimonia dell’autore esibisce – tra tirate da Grand’Attore e Cristologie forse superflue – ce n’è uno più interessante di altri: via via ci accorgiamo che in tutta la sarabanda sono gli altri (da Leporello fino al coatto Masetto) a crescere, a migliorare, a compiere un arco, a conquistare se non proprio una maggiore felicità almeno una maggiore consapevolezza. Ecco, Timi con tutti i suoi fuochi d’artificio, con tutto il suo essere protagonista ci dice alla fine che il protagonista per eccellenza, il più egotico e solitario, il più disinteressato all’altro dei grandi personaggi della cultura occidentale, può essere invece un mezzo, un servo astuto, un eroe altruista, un Prometeo felice dei suoi fegati divorati nel vedere coloro che ha lasciato pronti a consegnarlo all’oblio e vivere le loro storie, finalmente da protagonisti.

Teatro Argentina, Roma – 3 marzo 2015

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