Il mondo è pieno di grandi cose che stimolano i nostri sensi, ma ce ne sono anche di piccole, impercettibili, quasi invisibili, che come fantasmi ci sorprendono di nascosto e provocano in noi grande emozioni. Una di queste si chiama allinasi, è un enzima che si nasconde nei bulbi di certe piante: l’occhio non lo vede, eppure quando si libera nell’aria ci ritroviamo a piangere, senza capire perché.
Ed è proprio così che comincia lo spettacolo della compagnia Cie Twain, con una ragazza che sempre più convulsamente prende ad affettare cipolle: all’inizio non si nota, ma poi, poco a poco, il teatro dell’Orologio si riempie di un odore acidulo e pungente, che scena dopo scena si posa inavvertitamente sulle lacrime degli spettatori.
Era mio padre è la storia di un vuoto, di una dolorosa assenza da colmare. Secondo capitolo di Elettra, trilogia di un’attesa, lo spettacolo (ideato, coreografato e diretto da Loredana Parrella) intreccia il mito greco di Elettra, orfana del condottiero Agamennone, alla storia privata di Benedetta, orfana del giornalista Walter Tobagi, assassinato nel 1980 dalla “Brigata XVIII marzo”, nucleo terrorista milanese dell’estrema sinistra.
Sul palco, grandi teli di plastica occultano gli oggetti del passato, ricordi che grazie all’azione dei danzatori irrompono sulla scena per acquistare nuova vita. I due interpreti (Giulia Cenni, Yoris Petrillo), moderni atrìdi legati dal lutto, si scoprono e si scuotono, cercano i propri corpi e rincorrono l’aria, tentando in qualche modo di dare forma a un amore perduto, di costruire una propria identità sulle ceneri dell’inchiostro paterno.
Le coreografie sono ricche di trovate sceniche molto suggestive che talvolta, però, rischiano di sovraccaricare di immagini uno spettacolo che, data la buona drammaturgia, potrebbe tranquillamente sopravvivere con la metà degli espedienti.
Un teatrodanza, dunque, che rivela tutta la sua efficacia quando rinuncia alla recitazione e si affida completamente alle poeticità del gesto, dell'”inciampo” di marca bauschana. Ma il vero pregio di questo spettacolo, probabilmente, sta nell’ironia: quella capacità di “affermare negando” che qui, dopo numerose clownerie, farinosi impiastri e sgangherati slanci, lascia riemergere ogni volta tutto il silenzioso ma eloquente dolore di un’ingiustizia: pungente, odioso e insopportabile come quell’aria invisibile che all’improvviso affiora e brucia gli occhi.