Entrando in un teatro, dov’è che ci troviamo: in una sala o in uno spettacolo? E accendendo uno schermo o navigando su internet: a quale realtà ci stiamo collegando? Se il contenuto ci porta a dimenticare del contenitore, il contenitore ci porta a dimenticare noi stessi.
Dopo Job (scopri qui), il collettivo 7-8 Chili prosegue la permanenza romana di Dominio Pubblico con A-Play una doppia performance che attraverso i mezzi espressivi caratteristici dell’ensemble diretto da Davide Calvaresi – le video proiezioni – indaga il rapporto dell’uomo con la realtà e le possibili derive di una percezione alterata.
In Display, come suggerisce il nome stesso, al centro della scena è uno schermo. Su questo pannello posato a terra cominciano a campeggiare brevi sequenze video che nella loro buffonesca e immediata allegoria già ci invitano a uno sguardo altro: due coniugi attempati, un nocciolo di pesca, un vaso con una buchetta nella terra, rallenty sulla “semina” – stacco – ragazzo nudo accoccolato in posizione fetale. Insomma, il frutto posticcio di una fecondazione sterile ha preso forma: l’individuo digitale è nato. Ecco allora che il ragazzo esce fuori dal pannello, d’improvviso in carne e ossa, per interagire ironicamente con le proiezione di sé sullo schermo, in un gioco di paradossi fra immagine e presenza.
Hand Play invece indaga le dinamiche di coppia. Da un lato c’è una telecamera fissa che riprende in diretta una mano – in primo piano – e una ragazza (Giulia Capriotti) – sullo sfondo -; dall’altro c’è un pannello che nella bidimensionalità della proiezione ci restituisce l’immagine schiacciata della ripresa, dove i due soggetti appunto appaiono su un unico piano. Al di là dell’inevitabile comicità dell’espediente, questo strabismo prospettico suggerisce anche una visione caustica, per cui il sorriso iniziale nei confronti di quella mano antropomorfa che corteggia una ragazza, si fa d’improvviso grottesco sulle nostre labbra quando la stessa mano, poi, si rivela arma maschilista di dominazione sull’altro sesso.
7-8 chili, dunque, fa dell’ironia la sua cifra caratteristica. Il ricorso alle video-proiezioni infatti non viene estetizzato, celato o dissimulato, ma anzi è proprio la sua ingombrante e pervasiva presenza – il suo “farsi” davanti ai nostri occhi – a “proiettare” una riflessione sociale. L’evocazione di letture altre, tuttavia, non viene incanalata in una denuncia esplicita, ma si nega a sua volta con autoironia: il risultato finale di A-Play, insomma, non dista affatto dalla metaironia dei ready-made.
Pertanto, pur rischiando di esaurirsi nella prevedibilità dei suoi espedienti, questa mise en abîme di “proiezioni proiettate” e riflessi respinti – che contraddice quasi il suo stesso essere spettacolo – spinge a porci un’importante domanda: se è vero che il “virtuale” snatura la realtà, ma è altrettanto vero che è l’uomo stesso a creare il virtuale (poco importa se digitale o mentale), alla fin fine, chi è ad alterare cosa?
Ascolto consigliato
Teatro dell’Orologio, Roma – 13 dicembre 2014
In apertura: Foto ©Inteatro-GuidoCalamosca