Foto di scena ©Phil Deprez

En avant, marche! Verso l’ultima meta

Platel, Van Laecke e il gioco della morte

Si nasce già con “la morte addosso”, è un dato di fatto. E forse partire da una premessa così grave per parlare di uno spettacolo “leggero” – nel senso più calviniano del termine – e spiazzante come En avant, marche! di Frank Van Laecke e Alain Platel, appare un po’ eccessivo; eppure, è proprio della morte che si parla ma alla maniera di “Le ballets C de la B”, ovvero facendo risplendere il comico tra le pieghe della tragedia e viceversa vedendo, della comicità, i suoi lati più dolenti. È infatti già buffa e malinconica insieme la primissima entrata del signore in braghe e occhiali, in sovrappeso e un po’ apatico che è il protagonista dello spettacolo – Wim Opbrouck – mentre mugugna e tossisce in scena, le attrici che nel frattempo preparano il palcoscenico con file e file di sedie non sembrano farci molto caso.

Forse come non mai nella vecchiaia si fa più urgente il bisogno di aggrapparsi a un qualche senso di appartenenza, anche solo a una tradizione, uno di quei riti collettivi e rassicuranti che fanno parte della vita quotidiana. Ecco che allora la solitudine del vecchio verrà presto colmata dall’entrata in scena dei musicisti: prima i membri stabili della compagnia, seguiti poi dalla Banda della Scuola Popolare di Musica di Testaccio (incognita variabile dello spettacolo che cambia di città in città), come se questa fosse la personificazione della vita stessa del vecchio che ora, nella malattia, desidera chiamare a raccoglimento. “Sono malato”, recita infatti al microfono ora che la sua voce sembra risvegliarsi insieme alle prime note dei musicisti; scopriamo così che l’uomo è un suonatore di trombone affetto da un cancro incurabile – come il protagonista de La morte addosso di Pirandello cui si ispira la drammaturgia – e sarà costretto ad abbandonare la sua passione, il senso di un’intera vita.

Foto di scena: ©Arno Synaeve

E come “l’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello si perdeva nelle più piccole manifestazioni della vita quotidiana per sopportare il peso della malattia, così Platel e Van Laecke sembrano dare importanza a quei dettagli che in genere rimangono privati perché considerati privi d’interesse per un palcoscenico ma che pure proprio, in virtù dello stesso motivo, creano un cortocircuito di linguaggi sorprendente. Tutto allora assume pari dignità: dai gargarismi a Dylan Thomas, da Amleto ai particolari di vita sessuale, dalle parole che con ironica nonchalance prendono di mira mostri sacri come la Bausch e Benigni ai frammenti di monologhi più struggenti e disperati sull’amore, il dilemma della felicità, la paura di morire. Totalmente sgraziato, cialtronesco e irriverente, Opbrouck percorre così la marcia del suo ultimo addio – che si intreccia in un gioco ardito e liberatorio di parola, gesto e musica – scatenando un’energia e vitalità insospettata, mentre si susseguono in scena prove d’orchestra, danze e gag strampalate, siparietti con due majorettes (Chris Thys e Griet Debaker) un po’ attempate ma ancora pervase da un erotismo che ha il sapore di un tempo passato.

Foto di scena: ©Arno Synaeve

C’è qualcosa della spontaneità lirica di Pippo Delbono, del sarcasmo pungente di Christoph Marthaler e dell’attenzione al gesto quotidiano di corpi meravigliosamente imperfetti tanto cara a Pina Bausch, ma tutti questi segni si mescolano, si fagocitano l’un l’altro e si trasformano in qualcosa di completamente nuovo, coadiuvato dallo sguardo amorevole di Platel e Van Laecke per quei tipi umani rappresentati sul palco — uno sguardo che ha la furbizia sbruffoncella di un bambino unita alla sensibilità e al rigore del grande artista.

E poi, naturalmente, c’è la musica, registrata e dal vivo (direttore d’orchestra Steven Prengels), a sottendere l’essenza stessa dello spettacolo, di gioia e condivisione (si spazia da Malher a Verdi, dall’inno nazionale belga alle sonorità balcaniche); e insieme alla musica, i musicisti della Banda: impiegati, insegnanti, ingegneri, ovvero un micro-cosmo che rappresenta in piccola scala la comunità in cui si staglia la vita dell’individuo. E forse è proprio qui il punto nevralgico dello spettacolo di Platel, che sembra chiedersi: come può convivere lo struggimento esistenziale del singolo all’interno di una società – per definizione – “astratta”, che continua a vivere autonomamente e nonostante tutto senza di lui? Insomma: come si può sopportare l’idea che, dopo la nostra morte, tutto ci sopravvivrà? È questa la coesistenza impossibile e irrisolta portata sul palco: quella fra la comunità – la sfera pubblica – rappresentata dalla Banda musicale che con il suo sistema di regole fisse e rituali, si presta a simboleggiare in modo più ampio la società intera, e la vita interiore dell’uomo — che al contrario non obbedisce a nessuna regola — personificata dagli attori-danzatori, i quali, proprio attraverso la componente più estrosa, debordante e inafferrabile del loro stare in scena sembrano come ribellarsi a quelle stesse regole e cercare risposte che possano andare oltre.

Foto di scena: ©Arno Synaeve

E infine, però, sarà proprio la banda, la società, a destituire con dolcezza il nostro protagonista dalla vita, dopo l’ultima danza che segna una lotta per la sopravvivenza in cui, per forza di cose, sarà il più giovane (Hendrik Lebon) a essere decretato vincitore. La banda continuerà a suonare senza di lui, la vita a scorrere. L’alternarsi ciclico di morte e rinascita prende quasi le sembianze di una linea retta ma sempre indeterminata, come l’ultima nota sospesa che (non) chiude lo spettacolo: ancora una volta l’assenza di certezze – la fine che non è mai fine.

Foto di scena: ©Arno Synaeve

Chi vorrà trovare intellettualismi o una spiegazione a tutto ciò che accade in scena rimarrà certamente deluso; ma En avant, marche! in fin dei conti rappresenta lo scorrere della vita: non sorprende allora che sia uno spettacolo sfumato e misterioso, scanzonato e serissimo, “bastardo” e mai puro, come quel miscuglio vischioso di idiomi, di corpi e di linguaggi che prendono vita sul palco. Il teatro di Platel sembra guardarci e ridere di gusto di questo brutto vizio che abbiamo, tutti, di prenderci sempre così terribilmente sul serio.

Ascolto consigliato

Auditorium Parco della Musica, Roma – 23 febbraio 2016

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