De Revolutionibus Carullo Minasi

Il teatro e la sua (im)moralità

il ritorno di Carullo/Minasi nel segno di Leopardi

Moralità. Suona obsoleta come parola, non è vero? Viene da leggerla quasi con un certo sospetto. Lo scetticismo d’altronde è uno dei controprodotti inevitabili dei periodi di recessione: tutto si ritira, si rivolge su sé stesso, su quel “” che diventa unico riparo sicuro alla minaccia esterna.
Non ci si fida. Più. Tanto meno delle parole.

Ma cos’è poi la moralità? Mores sta per  costumi, usi, abitudini, nel senso di “misura delle azioni”; insomma, non tanto “come ci si deve comportare” bensì “come conviene comportarsi”. Bene e Male non sono tanto una questione di ottemperanza ma di utilità: a comportarsi tutti bene se ne trae semplicemente tutti beneficio. Ma l’uomo ha questo terribile vizio all’eccesso – sia dio, la fama, la ricchezza, l’idealizzazione –, alla hybris, come la chiamavano i Greci, e puntualmente finisce per spingersi troppo in alto, cadere e infine azzopparsi.

Le Operette morali di Leopardi parlano proprio di questo, di poveri diavoli, cioè di uomini che hanno perso la misura, i mores, la moralità. E la coppia teatrale Carullo-Minasi ne sceglie due particolarmente significative per il suo nuovo spettacolo: il Copernico e il Dialogo galantuomo e mondo. Da una parte il Sole che decide di smettere di girare – con buona pace degli uomini e del loro antropocentrismo –; dall’altra il Mondo che insegna a un uomo per bene cosa sia la mondanità e lo inizia alla corruzione.
Macro- e Micro-cosmo dunque, e al centro sempre lui, l’uomo e i suoi costumi.

Foto di scena ©Gianmarco Vetrano

Scena spoglia. Due carretti spartani. Qualche carabattola caricata su. Nient’altro. Cristiana Minasi e Giuseppe Carullo sorridono mentre il pubblico prende posto. Poi le luci calano. Suono di fisarmonica. Yann Tiersen. E i due, tra una pantomima buffonesca e l’altra, montano il loro piccolo teatrino come pupari dei tempi andati. Niente di strano, si dirà. E invece c’è da stare attenti. Perché le operette sono morali e questa povertà di materiale – per quanto C/M siano sempre essenziali nella scena – è tutt’altro che decorativa; i due sorridono, spensierati, ma già sembrano dirci: «Giusto questo ci hanno lasciato, bisognerà che vi sforziate un po’ con l’immaginazione».

Foto di scena ©Gianmarco Vetrano

Seppur non necessario alla visione, sarebbe da tenere a mente infatti – come in parte ha recentemente ricordato Palazzi – che circa due anni fa, dopo la brusca esclusione dal progetto Dolore sotto chiave da loro co-curato insieme a Saponaro (Teatri Uniti/Napoli Teatro Festivabb3

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