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Cronache dal lido #6 – Venezia 75

 Dragged Across Concrete – Craig Zahler

Dopo l’approvazione da parte di pubblico e critica di Bone Tomahawk (2015) e Cell Block 99 (2017), S. Craig Zahler approda al lido con l’action Dragged Across Concrete. La pellicola ripropone la più classica formula del buddy movie unito al genere poliziesco, resa ormai caricaturale dalle produzioni degli ultimi anni. Qui la coppia di poliziotti corrotti formata da Mel Gibson, l’interprete forse più associato al genere, e Vince Vaughn si troverà ad affrontare situazioni ben al di fuori della legalità. Zahler crea un’opera nostalgia e allo stesso tempo rinnovatrice, difficilmente destinata al dimenticatoio. Ironia, dramma e violenza verranno accortamente messi insieme creando personaggi e situazioni che non lasciano spazio all’indifferenza. I tempi narrativi estremamente dilatati non sempre convincono, rendendo l’ultimo montaggio della durata di ben 180 minuti non sempre scorrevole.

Antonio Abbate

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Sunset – László Nemes

Il cambio di un cappello nello stile e nella forma o solo nel colore come espressione del progresso era una delle tante immagini geniali degli Orgoglio degli Amberson di Orson Welles, indimenticabile celebrazione della fine di un’epoca, l’800. Nel sublime Napszállta-Sunset di László Nemes, in competizione nella categoria principale, ambientato a Budapest nel 1913 l’epoca a tramontare è quella dell’Impero Austro – Ungarico e i cappelli sono quelli tessuti e venduti da Leiter, celebre boutique della città. La giovane Irisz Leiter ritorna proprio a Budapest per candidarsi come modellista nel celebre negozio fondato dai suoi genitori morti durante una catastrofe. Tuttavia, il suo vero proposito è ritrovare il fratello oramai membro di una banda anarchico-nazionalista. Claustrofobico, opprimente e terribilmente cupo, Sunset scruta nell’orrore nascosto dietro al bello presentandoci un popolo in delirio per lenta distruzione del vecchio ordine e terrorizzato dalle premonizioni di un imminente guerra. Il regista è fedele alla sua potentissima idea di cinema e in modo analogo al suo esordio Il Figlio di Saul (2015), tutta la vicenda è raccontata secondo il punto di vista della protagonista con la macchina da presa che la mette a fuoco con dei primi piani, sfocando ciò che lo circonda, creando un caos splendido indistinto e non c’è niente più convincente del caos. Sublime e avvolgente.

Toni Cazzato

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Charlie Says – Mary Harron

Presentato in concorso nella sezione Orizzonti, Charlie Says racconta alcune delle vicende della Manson Family dal punto di vista di tre donne della setta. Il film di Mary Harron – regista di American Psycho (2000) – si snoda attraverso due piani temporali: i momenti ambientati in prigione, dove la docente e attivista Karlene Faith (Merritt Wever) decide di aiutare le ragazze condannate per omicidio, sono intervallati da flashback che narrano la vita all’interno della comunità con a capo Charles Manson (Matt Smith). La regista sceglie di raccontare una storia vera attraverso gli occhi di tre giovani donne, seguendo in particolare il percorso di Leslie “Lulu” (Hannah Murray). Mary Harron concentra infatti la sua attenzione sul lavaggio del cervello compiuto da Manson nei confronti dei membri della sua setta e così il “Charlie says” del titolo viene ripetuto all’infinito, con insistenza. Charlie dice che le donne non possono avere soldi loro, Charlie dice che è necessaria una rivoluzione per diffondere il caos, Charlie dice che bisogna uccidere. Un crescendo sempre più ossessivo e malato che sfocia negli efferati omicidi del 1969, fra cui quello di Sharon Tate, attrice e moglie di Roman Polanski. Quello che rende Charlie Says un film originale e riuscito è l’aver posto il focus non tanto sulla figura di Manson (interpretato in modo molto convincente da Smith), ma sull’effetto della sua personalità sulle menti di giovani ragazze e per tutto il film Karlene Faith si chiede, insieme allo spettatore, se le tre donne siano da considerarsi assassine o piuttosto vittime.

Giulia Bona

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At Eternity’s Gate – Julian Schnabel

Nel concorso principale arriva anche il turno di Julian Schnabel, regista de Lo scafandro e la farfalla (2007) e di Basquiat (1996), basato sulla vita del celebre artista morto di overdose di cocaina nel 1988. Con At Eternity’s Gate il regista ritorna al mondo dell’arte concentrandosi sugli ultimi anni di vita di Vincent van Gogh (Willem Dafoe), l’incontro/scontro con Gaugin (Oscar Isaac), il rapporto con il fratello che lo sosteneva economicamente e affettivamente, il periodo trascorso alla Maison de Santé, un convento adibito ad ospedale psichiatrico a Saint- Rémy, concludendosi con la sua morte sospetta. Fin dalle prime immagini lo spettatore si accorge di come il film abbandoni le linee già ampiamente tracciate e percorse dal biopic tradizionale, evitando di focalizzare l’attenzione su una dettaglia ricostruzione storica e non volendo in alcun modo creare dei tableau vivant che richiamino le opere del celebre pittore. La pittura di Van Gogh cattura la luce del sole, rendendo il paesaggio una porta sull’infinito, non una mera copia della natura ma una sua re-interpretazione e rielaborazione. Il dispositivo cinematografico attraverso frenetici movimenti di macchina a mano, falsi raccordi, dissolvenze incrociate cerca di mostrare la visione del pittore, la propria idea di arte, la sua re-interpretazione. La macchina da presa percorre da vicino (primi e primissimi piani) l’animo in turbamento di van Gogh restituendone anche il punto di vista con soggettive caratterizzate da una linea centrale fuori fuoco. Un film magnetico che evita lezioni didattiche sulla vita dell’autore, così come sul significato delle sue opere, per attuare una vera e propria figurazione del pensiero dell’artista. L’uomo che coincide con la propria opera. L’uomo una porta sull’infinito.

Samuel Antichi

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