Claes Oldenburg & Coosje van Bruggen Free Stamp, Willard Park, Cleveland, US

Quel miraggio chiamato libertà

Rosy Bonfiglio e le ali spezzate della 'Capinera' di Verga

Spesso si confonde la libertà con la liberazione: ci si illude di inseguire il grande ideale, quando in realtà ciò che si desidera veramente è soltanto evadere da una gabbia. Emanciparsi non è certo semplice, ma vivere la libertà è forse di tutte l’impresa più grande perché non concede il lusso del nemico, dell’oppressore, dell’altro cui opporsi: tutto dipende unicamente da sé stessi.

E questa è una lezione che il cosiddetto secolo lungo della modernità, quello delle rivoluzioni, del positivismo, della transizione dall’idealismo romantico all’ideologia politica, ha dovuto imparare a duro prezzo nel Novecento. Lo compresero subito Kafka, Pirandello, Döblin, e continuarono a raccontarlo Camus, Beckett o Bernhard, ma poi poco a poco complice anche l’arrivo del benessere quella lezione si disperse, fino a condurci a questo piccolo grande medioevo contemporaneo fatto di risibili nostalgie, rigurgiti religiosi e neofascismi vari da un lato, mollezza materialistica e vanitoso egocentrismo dall’altro. Sempre pronti a denunciare i soprusi del “sistema”, a lamentare i diritti lesi, a recitare la parte dell’eterna vittima, fatichiamo ad ammettere che questa presunta presenza minacciosa in realtà ci consola, che senza di essa rischiamo di riscoprirci vergognosamente vuoti. Ecco perché ultimamente di rivoluzioni – ammesso che siano di qualche duratura utilità – se ne vedono così poche.

Più schiettamente rassegnato allo spirito del tempo, invece, ero lo sguardo di Giovanni Verga, o per lo meno della sua produzione letteraria, che di quel secolo lungo di lotte sociali era figlio. A la maniera verista, lo scrittore siciliano non infuse mai grandi speranze di redenzione: come a dire “povero nasci, povero muori”: se la felicità esiste sicuramente non si cela in quell’agognata scalata sociale che tanto da un recinto stretto porta solamente a un recinto più grande.

Foto di scena ©Tommaso Le Pera

E lo riscopriamo al Teatro Studio Uno di Roma dove nella Sala degli Specchi torna in scena Capinera di Rosy Bonfiglio, ispirato al praticamente omonimo testo verghiano. Riccioli ribelli raccolti sulla nuca, membra formicolanti di vita, vestita di quelle stesse lettere da cui è composto il romanzo, la nostra protagonista unica si presenta con aria bambinesca e stordita, stringendo nervosamente a sé una gabbia. È la vivace Maria, destinata giovanissima a diventare monaca di clausura per sopperire alla povertà della famiglia.

Divisa in due da una soglia di petali di rosa, la scena diventa allora la dimensione della sua libertà: in un primo momento Bonfiglio estrae le lettere dalla gabbietta, si racconta, con raffinata ironia recitativa – fresca, immediata, colorata qua e là da musicalità siciliane – si confessa a tu per tu con il pubblico, quasi che il singolo spettatore fosse il vero destinatario delle sue lettere dal mondo là fuori. Già, perché Maria fuori dal convento ci vivrà per circa un anno, ne godrà con incredibile entusiasmo, ne diventerà il respiro, arriverà perfino a scoprire l’amore, ma poi scatterà la trappola sociale.

Foto di scena ©Tommaso Le Pera

Ed ecco che nella seconda parte lo spettacolo viene fagocitato nel gorgo della scena. Il ricco e curatissimo disegno luci di Michelangelo Vitullo (vero protagonista in absentia) scolpisce in profondità, oltre il boccascena, una suggestiva grotta della depressione: la ragazza cerca di dominarsi, di razionalizzare, di richiamare quella  fede assimilata a forza, ma la castrazione della clausura è innaturale e i capricci infantili si spezzano in un grido di dolore. Come la capinera dell’incipit, infine, Maria si lascerà morire, perché non ha senso vivere se non si può volare come gli altri.

Sicuramente encomiabile per la cura della scena (ambiente sonoro di Angelo Vitaliano), Capinera tuttavia rischia di vorticare su sé stesso senza mai spiccare quel volo che pur potrebbe. Ciò che forse rammarica, data la struttura monologica, è l’assenza di un’evoluzione recitativa tra le due parti dello spettacolo. Vale a dire. Il rapporto frontale iniziale, così genuino nella sua voluta svagatezza bambinesca, quasi antirecitativa, non trova una controparte drammatica quando, nella seconda parte, quel contatto inevitabilmente si spezza e prevale l’isolamento del personaggio: ciononostante, però, il registro si mantiene quasi intatto, cantilenante, gonfiandosi semplicemente di enfasi, e ciò lo rende improvvisamente artefatto, teatrale.

Smarrito il contatto diretto, emergono allora i dubbi rispetto alle ragioni o agli intenti drammaturgici di una scelta curiosa come quella di rappresentare Verga nel 2016. Chi potrebbe essere oggi Maria? Quale condizione  del nostro tempo riflette? Sono le ragazze turche del Mustang di Ergüven?  Gli eterosessuali forzati della provincia bigotta di Emma Dante? O magari le innumerevoli piccole comunità – di cui così poco si parla – che tentano di praticare uno stile di vita più sano e parco (v. downshifting) e vengono osteggiate in tutti i modi dall’invisibile eppure dittatoriale neocapitalismo sovrannazionale in cui la nostra vita è immersa?

Rosy Bonfiglio non ce lo dice né sembra suggerircelo: nel suo Capinera non si va oltre la narrazione; ma pur si potrebbe, perché a questa giovane artista (classe 1990) non manca affatto né l’intuito teatrale né tantomeno il potenziale. Se saprà osare, esplorare e sporcarsi di più, infatti, farà sicuramente parlare di sé.

Ascolto consigliato

Teatro Studio Uno, Roma – 3 febbraio 2016

In apertura: Claes Oldenburg & Coosje van Bruggen Free Stamp, Willard Park, Cleveland, US

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