Foto di scena ©Salvatore Pastore

Antonio e Cleopatra – Luca De Fusco

La carnificazione delle iperboli shakespeariane trasla dai corpi marmorizzati, retaggi del “naufragio del mondo antico”, alle proiezioni su un reticolato di pixel dello sguardo ipnotico di Cleopatra (Gaia Aprea) e del volto solenne di Antonio (Luca Lazzareschi), filtri contemporanei delle visioni logocentriche di Luca De Fusco e del suo Antonio e Cleopatra, in scena fino al 9 Febbraio al Teatro Eliseo di Roma.

L’eterno contrapporsi di Apolinneo e Dionisiaco, Occidente e Oriente, Ottaviano e Marco Antonio, diventa scontro di corpi che danzano sulla parola debordante: accade così di vedere battaglie storiche come quella di Anzio, che il verso traduce per mare, ridondare in coreografie di grovigli carnali, mossi dalle note tribali e psichedeliche di Ran Bagno; accade di sentire la sinuosità di Cleopatra manifestarsi dalle pieghe di una voce roca e suadente, sintesi di eterno femminino che ammalia, persuade e poi (si) distrugge, sorellastra di penna della Volumnia prevaricatrice, tratteggiata da Shakespeare per il Coriolano.

Le pennellate di luce al chiaroscuro di Gigi Saccomandi scolpiscono l’ossimoro dei corpi ectoplasmatici che furono di Antonio e Cleopatra, di Ottaviano e Lepido, dei servi e dei messaggeri che come statue tortili, portatrici sanissime del testo shakespeariano, lo declamano dal pulpito dei basamenti scenografici escogitati da Maurizio Balò. La regia veicola il suo intento anti-naturalistico e multimediale attraverso le video proiezioni che, da strumento di amplificazione visiva, diventano casse di risonanza per la parola tradotta da Gianni Carrera.

Il finale non può che essere la morte indotta per dilatazione di quel verbo che (s)finisce e si suicida stoicamente, condividendo il destino tragico e glorioso di chi le ha pronunciate e mostrate, con il corpo, sulla scena: «Noi resistiamo a noi stessi, per darci noi stessi la morte».

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