Oscar De Summa Riccardo III e le regine

Lo scrupolo del classico

De Summa torna al Riccardo III ma porta troppe chiavi

I classici non nascono mai classici, lo diventano. Letteralmente: vengono inseriti in una classe. Ma cos’è questa classe che sembrerebbe separarli e innalzarli rispetto a tutti gli altri? Non è chiaro: vi si accede per le ragioni più disparate, spesso legate al tempo, al gusto, alla moda, e non sempre la permanenza è eterna. Anche i classici possono tramontare. Può capitare che a un tratto la percezione muti e che quell'autorevolezza che veniva loro riconosciuta venga messa in discussione; come dire, possono anche essere “bocciati”.

Il vero problema con i classici però non è tanto se meritino di essere tali, no, il problema è che il fatto stesso di essere “alto-locati” li carica già di un titolo, di un pregio universalmente riconosciuto. Quest’aura – giustificata o meno che sia – è proprio ciò che scatena le reazioni più bizzarre: l’intoccabilità del classico, l’attualizzazione, il rispetto, l’invadenza, l’obsolescenza. Insomma, si perde di vista l’opera in sé e si passa alla sua dimensione simbolica, ovvero a ciò che l’opera rappresenta.

Questo è lo scacchiere su cui si gioca la partita di Riccardo III e le regine, il nuovo spettacolo di Oscar De Summa (prodotto dalla Corte Ospitale) che ha debuttato lo scorso finesettimana al Florìda di Firenze. Più che un’attualizzazione quella di De Summa è una traduzione stilistica. Cosa vuol dire? Che dopo la versione monologica del Riccardo nel 2007, e i recenti successi del suo percorso di narrazione Stasera sono in vena (2014) e La sorella di Gesùcristo (2016) –, l’attore pugliese torna al classico shakespeariano e lo “porta attraverso” le esperienze accumulate negli ultimi anni.

Si comincia ex abrupto: luci ancora accese in sala, De Summa entra sul palco con gli altri quattro attori e tra qualche bisticcio e qualche battuta introduce scanzonatamente la tragedia:

Riccardo III come ben sapete è una storia molto semplice: lui ammazza tutti e diventa re – poi… viene ammazzato pure lui. […] Facciamo così, se qualche cosa non la capite durante lo spettacolo, alzate la mano, noi ci fermiamo e al volo ve la spieghiamo, e poi riprendiamo…

Questo espediente, per quanto apparentemente balzano, in realtà agisce in continuità; un tempo, in fondo, il prologo serviva proprio a questo: avvicinare il pubblico alla storia che si andava a rappresentare e al tempo stesso accattivarselo.

Così, rotti gli indugi, si comincia con il celebre monologo «Ora l’inverno del nostro scontento…». Sforbiciato qua e là, rimodellato, smangiato, soppesato, fino a detonare un cupo e potente: «Guardate come è facile rendere la vita difficile a qualcuno… Seguitemi». A questo punto la “storia” inizia davvero. Ed è qui che i piani cominciano a sovrapporsi, spostando la partita (teatrale) su più scommesse.

Dunque. La trama è soppressa nel suo svolgimento organico rinunciando alla complessa questione storica delle faide interne tra York e Lancaster. A rimanere è l’ossatura che si svilupperà attorno alle “regine” (I. Carloni, S. Gallerano e M. Occhionero): tre generazioni di donne spogliate di figli, mariti e padri dal «subdolo, falso e traditore» Riccardo. Ciascuna una voce diversa, una recitazione diversa, un diverso modo di reagire a questo intreccio di timore, odio e soggezione al potere vessatorio della parola del re «deforme».

Parallelamente, c’è una riambientazione futuristica-rétro dal gusto molto anni ’80 che fa da contrappunto al potere oscillando tra richiami punk e skinhead.
In terza battuta, nella piacionieria grottesca di Riccardo non si può fare a meno di trovare una eco molto più contemporanea, tipicamente nostrana, che spazia idealmente dal satiro del bunga bunga al bullo boyscout con le pupe al ministero. O del nuovo presidente stelle e strisce, volendo (cfr. il Richard III di Ostermeier).

Ancora. Tra i diversi registri interpretativi adottati (in particolar modo dalla giovane poliedrica Occhionero) si offre una ricca antologia di teatro elisabettiano, commedia dell’arte, teatro di narrazione, post-drammatica e metateatro.

Una “traduzione stilistica”, insomma, o attraversamento, se si preferisce, che rischia tuttavia la saturazione, faticando a tenere insieme tutte le strade battute, tanto che qui e lì è proprio il Riccardo III stesso a sfilacciarsi; ne risulta quel senso di indigestione tipico del pop per cui o si cede estaticamente all’eccesso o si tende criticamente a prenderne le distanze.

La nostra impressione infatti è che De Summa, per così dire, abbia indugiato troppo negli scrupoli, preoccupandosi molto dell’interpretazione, della rilettura, dell’adattamento insomma della cosiddetta attualizzazione del classico, finendo per sfocare le ragioni dell’opera in sé che ne esce fuori zoppicante, gravata com’è dalla mole di (nuovi) registri che è costretta a sobbarcarsi.

E a questo punto sorge un dubbio sincero: ma perché allora adottare il Riccardo III? Perché non creare un’opera ex novo come accaduto recentemente dando grande prova di innovazione e rivitalizzazione della tradizione al tempo stesso?

La sfida di trasportare un classico è legittima, certo, ma al momento ci pare che De Summa sia uno dei pochissimi teatranti italiani in grado di dar vita a nuovi classici. Suoi.

Un dono da non sottovalutare.

Crediti ufficiali:
RICCARDO III E LE REGINE
da Shakespeare
ideazione e regia Oscar De Summa
con Oscar De Summa
e con Isabella CarloniSilvia GalleranoMarco ManfrediMarina Occhionero
scene Matteo Gozzi e laboratorio scenotecnico di Armunia
luci Matteo Gozzi
costumi Emanuela Dall’Aglio
produzione La Corte Ospitale
in collaborazione con Armunia Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello

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