Mai sentiti tanti sospiri in un teatro. Ieri sera, nella piccola sala b dell’India, poco a poco l’atmosfera si è fatta sempre più stretta, soffocante, claustrofobica; quando però dopo settanta minuti di crescente tensione le porte si sono di nuove aperte, nessuno si è affrettato a uscire: come colti da sindrome di Stoccolma, gli spettatori sono rimasti paralizzati sulle sedie, schiacciati da un peso che non li lasciava andare via. Cosa è accaduto?
Polvere di Saverio La Ruina mostra qualcosa che non si vuole vedere. Non un mistero né un fatto nuovo, sulla scena piuttosto approda un tema sociale – la violenza nei confronti delle donne – che dopo lunghe renitenze sta riuscendo finalmente a violare la camera oscura della vita privata per denunciarsi in pubblico senza più timori o omertà – o almeno così ci si augura. E nello spettacolo non si tergiversa, La Ruina ce lo mostra fin da subito, lasciando ben pochi margini al dubbio: la violenza è lì, anzi qui, proprio davanti ai nostri occhi.
Quando dopo appena un paio di minuti, infatti, le domande pressanti di un uomo (La Ruina) cominciano a valicare il confine di una sana gelosia, rimane poco da attendersi – da sperare – il dramma è già evidente, concreto, realizzato: siamo in una trappola. Descrivere Polvere non è complicato; difficile piuttosto è riuscire a sostenere lo sguardo, a sopportare, a restare immobili a osservare quando a pochi metri da noi un uomo sta coercizzando dispoticamente la fragile psicologia di una donna (Jo Lattari) già vittima, in passato, di stupro. Un quadro dopo l’altro, la sfera domestica della vita di coppia diventa asfissiante: lui vuole controllare tutto, sapere tutto, scoprire tutto, anche quando in realtà non c’è assolutamente nulla da scoprire, fino ad arrivare ad alterare la realtà pur di alimentare il suo morboso gioco di potere.
Non vediamo le percosse né il sesso svilito a estorsione d’amore, eppure quelle intermittenze di buio che accompagnano i capitoli della narrazione (luci Dario De Luca) si trasformano in un inquietante preludio di disperazione: un silenzio che il pubblico vive con crescente apprensione e quasi avversione, come immaginando e non volendo più sapere al tempo stesso cosa potrà succedere – ogni volta – “dopo”. Polvere dunque crea un clima di insofferenza nei confronti dello spettacolo stesso, che suscita curiosi strabismi dal punto di vista delle recezione. Da un lato, infatti, l’intera operazione vortica ossessivamente attorno a un unico espediente – scenico, drammaturgico, attoriale – che esaurisce la sua carica creativo-attrattiva dopo pochi minuti; dall’altro, tuttavia, proprio la repulsione rende lo spettacolo paradossalmente mesmerizzante, stimolando un effetto catartico dalla potenza emotiva sconcertante. Forse a mancare è un’evoluzione psicologica, imponendo una tipizzazione statica, preordinata, che non lascia spazio a un possibile – inquietante – riconoscimento tra spettatore e personaggio.
Quando, infine, l’ultimo quadro si spegne il pubblico è stordito, fatica ad applaudire, a immaginare che tutto sia finito. Con Polvere, insomma, La Ruina ci immerge in un incubo psicologico di cui non si può fare a meno di condividere intimamente il dramma: un teatro difficile, estenuante eppure innegabilmente necessario.
Ascolto consigliato
Teatro India, Roma – 10 febbraio 2015
In apertura: Foto di scena ©Angelo Maggio