Foto di scena ©Guido Mencari

Pinocchio – Zaches Teatro

È uno dei personaggi più famosi di sempre, in poco più di cento anni si è imposto nell’immaginario di grandi e bambini di mezzo mondo, con quel suo naso lungo di bugie, monellerie e inesauribile vitalità; eppure, pochi lo conoscono davvero, la maggior parte ha incontrato soltanto la dolce controfigura della Disney. Ma nel cartone non si dice, ad esempio, che Pinocchio doveva morire per mano degli assassini o che la fatina dai capelli turchini e il viso cereo, in realtà, era una bambina defunta.

Già, quando Collodi pubblicò la storia a puntate, al suo monello di legno non si allungava ancora il naso e all’ennesima sortita finiva per rimanere impiccato; morale: chi persiste nell’errore fa una brutta fine. Poi ci fu un’indignazione generale, il burattino aveva conquistato tutti – doveva sopravvivere. Nacque così il capolavoro picaresco italiano, più tradotto e conosciuto della Divina Commedia.

Zaches Teatro recupera l’originale collodiano e ce lo restituisce senza edulcorare nulla: divertente, crudo, allegorico. Nel clima apparente di fedeltà, fatto di splendide maschere (Francesco Givone), gestualità da fiaba per marionette, toscanismi di fine Ottocento, però, pian piano appare – prima curioso, poi enigmatico e infine vagamente perturbante – uno spesso strato di polvere.

Quello che di primo acchito sembrerebbe un delizioso allestimento in vecchio stile, a un tratto rivela nella penombra una dimensione angosciante da incubo goyesco, uno spirito surreale e grottesco da animazioni di Švankmajer (guarda qui), e l’insistita presenza del celeberrimo Piano Trio no.2 di Schubert (ascolta qui), poi, aggiunge anche un raffinato tocco espressionista da film muto. Siamo ancora in una storia per ragazzi o è stato rovesciato sul palco un vecchio baule che non andava aperto? Perché la fata turchina diventa un’imperturbabile bambola di porcellana, quasi fosse un demiurgo caricato a molla? E come mai ci sono solo marionette?

Forse il segreto va cercato in un particolare apparentemente secondario. La Fatina porge a Pinocchio un libro; egli comincia a sillabare, ma poi allontana il testo: non gli piace, non capisce, non vuole. Con un brillante scarto da (secondo libro di) Don Chisciotte, la storia che il burattino si rifiuta di leggere è in realtà la sua. Pinocchio non vuole imparare, ha paura di crescere, di diventare uomo in un mondo di soli pupazzi. Così, quando infine viene trasformato in bambino, d’improvviso perde tutta la sua vitalità: riposto nella cassa da cui era balzato via al principio, ora alza piano il capo e si guarda attorno – atterrito e sgomento.

Qualcuno forse dirà che quello di Zaches Teatro è un Pinocchio cupo, non adatto ai più piccoli, ma come notava Margaret Mead il grande limite dell’educazione è quello di isolare i bambini in una fascia protetta, come se per un certo tempo dovessero mantenere una purezza che è solo nel dito di chi la indica. Qui, invece, ritorna una necessaria commistione di vita e morte, di leggerezza e tragedia, di felice spensieratezza e disperata costernazione. Ieri sera i visi dei pochi bambini in sala erano tremendamente seri: qualcosa stava agendo dentro di loro, come se finalmente fossero stati iniziati a una verità che era stata finora loro negata.

Luana Gramegna firma e dirige uno spettacolo suggestivo, scrupoloso e godibilissimo (impeccabili e poliedrici i – solamente – tre interpreti Enrica Zampetti, Gianluca Gabriele, Giulia Vania), che rivela un Pinocchio ancora poco noto in Italia, preferendo al realismo sociale di Comencini o ai fasti fiabeschi di Benigni, un’immediatezza allegorica che nella sua crudità tragicomica restituisce finalmente una lettura più complessa e profonda del romanzo.

Ascolto consigliato

Teatro India, Roma – 30 ottobre 2014

In apertura: Foto di scena ©Guido Mencari 2014

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