Il Lear di Bacci perde la propria identità sotto il peso di troppe maschere
Un re con tre figlie. Così tante terre da non reggerne il peso. E un esercito, tanto grande da confonderne il numero. Cosa resta a questo re se titolo e potere vengono ceduti anzitempo? Un nome soltanto Lear e il suo buffone Fool a difenderlo.
Liberamente ispirato all’opera di William Shakespeare, Lear di Stefano Geraci e Roberto Bacci, che ne firma anche la regia, non solo parte da un re privato della regalità ma anche del proprio genere. Infatti scegliere di far interpretare questo ruolo maschile all’attrice Silvia Pasello (già Premio Ubu) coincide con la volontà, nelle intenzioni, di portare in scena una tragedia che sia universale, umana, finanche primigenia.
Né Goneril (Caterina Simonelli), Cordelia (Maria Bacci Pasello) o Regan (Silvia Tufano), le tre figlie di Lear personaggi della trama principale in Shakespeare , né il Conte di Gloucester (Francesco Puleo), il figliastro Edmund (Tazio Torrini) e il figlio Edgar (Savino Paparella) personaggi della trama secondaria riflesso della prima lasceranno mai lo spazio scenico. Anzi. Altri ruoli quelli sociali, imposti, fittizi si celeranno o si affacceranno dietro le maschere di volta in volta calate sul proprio personaggio.
La doppiezza, lo smascheramento al pari dei delitti o delle rivelazioni, delle verità burlate o delle finzioni gridate, delle pene inflitte o scontate, saranno sempre davanti agli occhi della platea come i sette sipari (Márcio Medina anche per i costumi e realizzati dalla Fondazione Cerratelli con il Laboratorio di Costumi e Scene del Teatro della Pergola) che troneggiano sulla scena: veri e propri affreschi scenici dalla maestosità tragica.
Saranno loro a far scorrere, segnare, animare, il tempo e lo spazio della storia: si gonfieranno come vele nell’evocativa tempesta attraversata da Lear e da Gloucester, intrappoleranno le foschie mentali e luciferine di menti cupe come il fondo, lasceranno solo un vuoto incerto quando cadranno come pieghe della storia su un campo di battaglia.
Se tutto ciò segna la ricchezza di questo spettacolo, al contempo ne è anche il limite. Lear è una mirabile foresta di simboli che non riesce a generare altrettante corrispondenze; e così, anziché aprire una breccia, genera un’ambiguità che distrae.
Da un lato c’è la volontà di portare in scena la vicenda tutta umana di un re svestito della propria regalità, del proprio simbolismo rituale, in una caduta che drammaturgicamente lo deresponsabilizza; dall’altro però tale vicenda viene caricata di una ritualità propria della tragedia antica attraverso la doppia funzione della maschera , di un’arte delle origini pregna di virtù creatrice che invece sanziona, responsabilizza e ripara la comunità.
In questo senso, la scelta ulteriore di far interpretare il ruolo di Lear a una donna, nella prospettiva di trascendere il genere, sfugge se si pensa proprio alla funzione unificatrice e trasformatrice assolta dalla maschera. Perciò ci domandiamo il perché di queste scelte che sembrano sottrarre senso più di quanto ne aggiungano. Perché solo Lear deve allora essere interpretata da una donna?
Non è forse così casuale che sia dunque la vicenda secondaria a vibrare in altro modo. Quando Edgar viene messo al bando per le falsità di Edmund è la nostra stessa innocenza a non essere al riparo; così come quando Gloucester, ormai cieco, crede di suicidarsi sono le nostre vite ingannate a far rumore.
Di questa avvertita prossimità si sente la mancanza. Quando l’abbiamo scorta è durata l’attimo di un riflesso.
Letture consigliate:
Preamleto, un capolavoro senza voce. L’occasione mancata di fare grande il teatro, di Giulio Sonno
Ascolto consigliato
Teatro Era, Pontedera – 2 aprile 2016
In apertura: ©Cristina Gardumi