Foto  ©Chiara Ernandes

Esse.Santo Subito, o la deriva di Sterminio

Quel difficile confronto con le menzogne di Schwab

«Sono giunto al monocromo perché davanti a un quadro […] avevo la sensazione che le linee, il contorno, la forma, la prospettiva, non componessero altro che le sbarre della finestra di una prigione»

No, non è una citazione da Sterminio di Werner Schwab, né dalla riscrittura che ne fa Dante Antonelli, però queste parole si prestano assai bene per avvicinarsi a Esse.Santo Subito, il nuovo lavoro del Collettivo SCH.

Sono di Yves Klein, uno dei grandi padri dell’arte concettuale, un’arte spesso fraintesa spesso abusata, che si esprime liberandosi del suo stesso mezzo di espressione, che comunica cioè senza rappresentare, o meglio, che è non tanto in ciò che mostra ma in ciò che non mostrando riesce a evocare. Come la Merda di Manzoni, i Tagli di Fontana o i Ready-made di Duchamp.

Ecco, se Klein svuotava per lasciare lo spazio di riempire, Schwab riempiva fino allo stremo per denunciare un vuoto. Due visioni complementari? Non esattamente, perché il primo approccio dà spazio a un seguito, mentre il secondo è talmente distruttivo che o la distruzione si fa apocalisse e quindi introduce una nuova fase, oppure finisce per diventare una frustrazione iconoclasta fine a sé stessa.
Chiunque si confronti con l’autore austriaco si ritrova davanti a questo grande scoglio.

Santo Subito

Yves Klein Monochrome noir (M 78) (1957). © www.yveskleinarchives.org

Dante Antonelli, come nel precedente Fäk Fek Fik (vincitore Roma Fringe Festival 2015), attinge ai Drammi fecali schwabiani rielaborandone il materiale di partenza: da una parte mantiene l’intuizione originaria del testo, dall’altra la sviluppa tematicamente, in una riscrittura originale che si avvicina, contestualmente, al pubblico italiano di oggi. Ma spostiamoci sulla scena.

Tra i due pilastri delle Carrozerie n.o.t non c’è alcun arredo, neppure un oggetto, solamente la presenza fragile e debordante di Gabriele Falsetta. Prima un pittore frustrato, poi una donna rancorosa, infine un angelo dello sterminio. Tre ritratti, un unico volto: quello di Schwab—uomo e artista; così almeno come avvertito dal Colletivo SCH. Anzi, un’unica voce, che sfoga sulla tela intrecciata dalle proprie parole l’immagine livida di un mondo che non riesce a digerire.

Se nel testo originario, però, lo storpio artistuncolo Herrmann Wurm (e si badi che Herr-mann sta già per «Signor Uomo», Wurm per «Verme», quindi l’inetto alla maniera di Schwab) e l’alto-locata Frau Großfeuer («Signora Incendio», autrice dello sterminio finale di tutti gli inquilini) si rivelano per contrapposizione con gli altri personaggi, qui il ricorso al soliloquio comporta invece un ribaltamento globale. Tanto che se, nel primo quadro, Falsetta contrae su di sé (egregiamente) tutte le voci in una schizofrenia di traumi accumulati (complice il pulviscolo sonoro di Samuele Cestola, in arte Samovar); nel secondo, non può che riversarle vis-à-vis sul pubblico.

Foto di scena ©Giorgio Terrini

Ciò, oltre a non trovare un’alterità “terza” nell’ultimo quadro, che faccia in qualche modo da chiusura-allaccio all’intero spettacolo (comprensibilmente anti-narrativo), mina la tenuta della messa in scena scontrandosi con lo scoglio che è proprio della fonte stessa. La società iper-cattolica, ipocrita, squallida dei Drammi fecali (’90-91), in cui ad esempio tale «Wottila Karl» è il miglior macellaio o l’abbondanza è la merda di cui ci si cosparge, non trova più una corrispondenza così immediata in quella contemporanea. La nostra ormai sta diventando la società del disincanto, dell’autoemarginazione virtuale volontaria, della ricerca stanca di valori cui votarsi.

È qui che la scelta di portare in scena Schwab ricontestualizzandolo ma non domandolo rischia di portare alla deriva. Il pubblico di oggi infatti ascolta con attenzione, incassa tutti i colpi, perfino quelli bassi, anzi, spesso li accompagna con un sorriso di consenso; ma poi si aspetta qualcos’altro, qualcosa che l’amara quotidianità non gli abbia già insegnato. Quell’oltre però non arriva e allora si avverte il peso del tempo, di un’atmosfera rétro che non innesca nuovi cortocircuiti.

Foto di scena ©Giorgio Terrini

Sicuramente è encomiabile il coraggio di un collettivo così giovane di imbarcarsi in una tale impresa teatrale: le intuizioni, singolarmente, rivelano infatti un’attenta cura formale, un’essenzialità che scaccia via lo spauracchio della ridondanza à la Ricci/Forte, nonché una buona dose di spregiudicatezza nel riadattare questo quasi-classico contemporaneo; ma per fare veramente il salto c’è bisogno di qualcosa di più. Una visione.

Forse la vera sorpresa sarebbe la quiete non il livore.

Nell’originale, infatti, compiuta la strage, ecco che il messaggio cristiano «Ama il prossimo tuo [cioè «colui cui ti avvicini»] come te stesso» si ribalta in uno spiazzante – e per nulla blasfemo, dopotutto –:

Chi non va alla ricerca degli altri deve almeno eliminarli, per non rischiare di rendersi ridicolo trovando infine qualcuno.

Il vero dramma di Sterminio non è il cannibalismo sociale, è che tutto comunque continua a ripetersi. Che il massacro non basta. Che siamo diventati immuni alla nostra stessa morte ma ciononostante rimaniamo tarati a ucciderci a vicenda:

«La cosa più intelligente sarebbe stata […] un rapporto d’amore terreno, senza paradiso e senza sostegni, una bestemmia demistificante […] La cosa più difficile sarebbe stato l’assoluto, l’affetto senza istinto di uccidere.»

Questo – più che la sua forma contraddittoria – è il nodo sempre contemporaneo e vivissimo di Schwab. Il «macroscopico bugiardo» è meglio combatterlo che assecondarlo.

Ascolto consigliato

Carrozzerie n.o.t, Roma – 9 aprile 2016

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