Indice e sguardo dritti, puntati potenzialmente su ciascuno. Cappello a cilindro, sigaro masticato e atteggiamento alla I want you. No, non si tratta dello zio Sam e delle strategie dello stato a stelle e strisce per il reclutamento di soldati ma, di fatto, quella che si verifica sulla scena è la vera battaglia che si combatte nei processi di selezione dei colloqui di lavoro. Quella battaglia, sempre più competitiva, per il miraggio di un’esistenza migliore che, a ben pensare, non si riduce alla conquista di un mero status sociale ma piuttosto alla realizzazione consapevole del proprio io in quel GRAN TEATRO chiamato mondo.
Tu! Ognuno è il benvenuto è lo spettacolo della compagnia Fondazione Pontedera Teatro, diretto da Roberto Bacci, che analizza in tono grottesco quelle spietate tecniche in uso presso gli addetti al personale, sotto la cui lente d’ingrandimento la complessità umana si riduce a risposta monosillabica. Un sì o no per cui la sensibilità del pensiero è calpestata dai subdoli psicologismi, trucchi sleali da cui emergono, come un fiume in piena, le più recondite debolezze, la paura di essere inadeguati assieme quella di non farcela.
Seduti tra le fila del palco o più convenzionalmente in platea, per poco più di un’ora siamo tutti potenziali candidati, che assistono, inermi, alla deriva di un proprio simile, un uomo comune (Sebastian Barbalan) le cui speranze si infrangono contro le domande di due reclutatori e del loro capo (gli istrionici Francesco Puleo, Alessio Rargioni e Tazio Torrini). Nell’asfissia d’improduttivi interrogatori, la stanza sembra rimpicciolirsi, la porta avvicinarsi: solo un angelo, consapevolmente posticcio (Silvia Pasello), è forse speranza per indicare la via d’uscita, ma il punto di non ritorno è ormai raggiunto.
Ispirata alle ultime pagine di America, romanzo incompiuto di Kafka, la pièce di Bacci scritta con Stefano Geraci – ne racchiude il sottile esistenzialismo, che si dispiega sulla scena con immagini complesse, frammentarie, costruite con pochi abiti e qualche oggetto. La gestione degli spazi, nel rapporto pubblico-interpreti, consente un punto di vista non sclerotizzato nella frontalità ma che gode simultaneamente di diversi nuclei di focalizzazione: siano ora le partiture di un singolo attore, siano ora le loro azioni fuori scena, nella sala attigua al palco. Da quest’ultima, separata con un telo nero, si intravedono in trasparenza i cambi d’abito dei reclutatori o gli attimi di riposo di un angelo senza più le ali, in un momento di sospensione da sé – ma non della finzione scenica che nella luce soffusa altro non è uno studio preparatorio sulla loro funzione di strumenti nell’attimo prima di agire, di vedere il candidato di turno affogare.
Ecco allora che la necessità d’accontentarsi inchioda ognuno sotto una rigorosa sferza sociale, costringendo così a essere parte di un meccanismo che ingurgita e impone di ingurgitare qualunque misera offerta capiti a tiro, mandando giù, a ogni boccone, ogni fallita promessa e con essa un po’ di sé.
Teatro Vascello, Roma – 26 novembre 2014