Foto di scena ©Fabio Esposito

Le Voci di Dentro – Toni Servillo

Guardare da sopra verso sotto e quindi, in senso figurato, con diffidenza: l’etimologia latina della parola “sospetto” restituisce con precisione l’atteggiamento di chi rivolge verso gli altri (e mai verso sé stesso) una sfiducia aprioristica, un giudizio di paura.

In questo senso vanno intese Le voci di dentro (ri) portate in scena da Toni Servillo: la commedia è uno dei testi più amari scritti da Eduardo e poi inclusi nella “Cantata dei giorni dispari”, quei giorni in cui tutto va storto: le voci di dentro fanno eco alle voci di fuori, alle dicerie che alimentano l’equivoco, l’errore e quindi, appunto, la diffidenza.

Appena entrati in sala, un palcoscenico aggettante, scosceso in avanti, lascia già prefigurare una traiettoria d’azione dall’alto (scena) verso il basso (pubblico), disegnando fin da subito le coordinate del sospetto (scene Lino Fiorito): la scenografia è essenziale e, seppure priva di quei particolari cari ad Eduardo, immediatamente ci introduce in casa Cimmaruta. La sola credenza nella quale è custodito il cibo – elemento che solitamente unisce e che qui, sintomaticamente, tende a separare i personaggi – e il tavolo sul quale consumarlo mentre si dialoga, bastano a isolare la dimensione familiare, principale imputata nel processo che il testo istruisce contro la distorsione dei valori umani, una distorsione che la paura e l’ansia di ricostruzione del dopoguerra hanno provocato, instillandosi nello spirito d’ogni essere umano.

La famiglia Cimmaruta è un nucleo allargato di individui che si accecano di sospetti reciproci a causa di un sogno fatto dal vicino di casa e “apparatore di feste di quartiere” Alberto Saporito, il quale, confondendo realtà e sogno, crede che i vicini siano coinvolti in un assassinio: una storia attualissima, un riflesso figurato del presente imperfetto contemporaneo, di quel terrorismo indotto in cui oggi viviamo; una politica della paura che, oltre i perbenismi interessati delle ricorrenze della memoria, ci induce a diffidare di tutti.

Le accuse di sangue tra parenti, il “pensare che stanca più dell’agire”, l’incomunicabilità causata dalla sordità in cui è piombato il genere umano, e ancora l’equivoco tra sogno e realtà: tutti i temi dei tre atti originali sono fedelmente riproposti. Ogni elemento, così, concorre alla costruzione concettuale della vicenda: le scenografie (in particolare quella “confusionaria” del secondo atto, che si consuma in casa dei fratelli Saporito, dove tra le sedie accatastate e la stanza “a parte” del personaggio chiave “Zi’ Nicola”, gli equivoci e i sospetti toccano l’apice), la regia e le rughe d’espressione di Toni Servillo, con la recitazione impeccabile di tutta la compagnia, costruiscono una riduzione che, pur non introducendo essenziali elementi di novità, risulta efficace per pertinenza.

Toni Servillo è forse l’Eduardo che il pubblico dell’Argentina aspettava – dopo il Natale in Casa Cupiello di Latella e quello di Russo Alessi – per riconciliarsi con la tradizione confortante. Eppure proprio questa rappresentazione dovrebbe essere la più insopportabile; quella che attraverso scoppi e sputi – come fa il personaggio di Zi’ Nicola – ammonisce di non sospettare solo degli altri; quella commedia amara che attenua la risata per piantare uno specchio giudicante proprio verso il pubblico, e far sì che questo finalmente s’interroghi su sé stesso – squadrandosi “dall’alto verso il basso” – e dubiti della propria natura.

Ascolto consigliato

Teatro Argentina, Roma – 27 gennaio 2015

In apertura: Foto di scena ©Fabiano Esposito

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