La carta da pareti gialla

Una stanza (della follia) tutta per sé

Al Teatro Studio Uno va in scena 'La carta da parati gialla' di Charlotte Perkins Gilman

Dalla sua stanzetta nella casa paterna di Amhrest, la reclusa volontaria Emily Dickinson scrisse alcune tra le poesie più significative di tutto l’Ottocento (e non solo). Una stanza tutta per sé (1929) era per Virginia Woolf la condizione materiale necessaria per intraprendere il percorso d’indipendenza intellettuale della donna, che passa necessariamente dalla cultura. Eppure, una stanza può anche trasformarsi in uno strumento di tortura e oppressione: quando la reclusione è coatta, prescritta da sedicenti medici che nel 1887 raccomandavano “cure di riposo” per combattere l’isteria della donna, sperando anche di sedare lo spirito ribelle che minacciava la supremazia del potere maschile.

Accadde così alla poetessa, sociologa, scrittrice Charlotte Perkins Gilman, pioniera del femminismo e figura di attivista anti-convenzionale per le sue posizioni progressiste – sovversive nell’austero Connecticut dell’epoca – riguardo l’emancipazione della donna, ovvero non più angelo del focolare né tantomeno dipendente economicamente dal marito; convinzioni frutto della propria esperienza di vita più che di astratte teorie. Successe così che il deterioramento di un matrimonio infelice e una violenta depressione post partum confinarono Gilman in una camera per tre mesi con il divieto assoluto di scrivere e di fare alcunché, portandola al crollo nervoso e al limite della follia. Esperienza confluita poi nel semi-autobiografico La carta da parati gialla, il suo racconto ad oggi più conosciuto, ora portato in scena al Teatro Studio Uno per la regia, essenziale e funzionale, di Paolo Biribò e Marco Toloni (produzione Es Teatro).

In scena, un cubicolo nero e un quadrato di aste che delimitano una camera/gabbia claustrofobica, metafora di un ambiente psichicamente instabile. Sembra quasi di assistere a un racconto gotico, complici le musiche incombenti e sinistre composte da Roberto Procaccini, mentre fra rapidi e decisi stacchi di buio-luce si sussegue, in una serie di quadri frammentati – come è la mente di chi li crea, Elena Balestri nei panni della protagonista –  la storia di una donna progressivamente alienata dalla realtà a cui non resta altro che l’immaginazione distorta della pazzia per poter sopravvivere.

Così, fra i deliri e le allucinazioni, la carta da parati strappata sembra quasi prendere vita mentre quella di Balestri – fragile, calibrata in ogni movimento ed efficace nel caratterizzare una mente distrutta dall’apatia – si perde sempre di più fra le disperate risate isteriche, i movimenti convulsi per sgranchirsi dall’immobilità, nel vicolo cieco delle sue richieste non ascoltate dal marito-medico-carnefice John, fino all’ultima ribellione che sfocia nell’unico gesto possibile.

La Carta da parati gialla è dunque il fotogramma di una condizione di oppressione, un testo che denuncia e critica duramente l’esercizio del controllo maschile sulla libertà della donna, testimoniando il tentativo di manipolazione e annientamento della volontà che nel corso del tempo la società di stampo patriarcale ha sempre cercato di esercitare su di lei. Gilman consegna il ritratto di una donna fuori dai canoni stabiliti, controversa nel suo rapporto con la maternità, la cui follia si svincola dal suo aspetto (solo) patologico per diventare il sintomo di un’oppressione più ampia che oggi è retaggio del passato ma che ancora ci riguarda.

Nota a margine: la durata esigua dello spettacolo lascia l’impressione di un primo studio che, seppur estremamente compiuto, meriterebbe a nostro avviso di essere ulteriormente sviluppato.

Ascolto consigliato

Teatro Studio Uno, Roma – 8 gennaio 2017

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