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Suzannah – Thea Dellavalle

Viene in mente il capolavoro di Gustav Klimt del 1905, Le tre età della donna – in cui il grande pittore viennese rappresenta simbolicamente le diverse fasi della vita: infanzia, maternità e vecchiaia – vedendo le tre attrici in scena al Teatro India che interpretano tutte la stessa donna. È questa, infatti, l’operazione che compie Jon Fosse in Suzannah: prende la figura di Suzannah Thoresen, moglie di Henrik Ibsen, e la scinde in tre corpi diversi, corrispondenti ognuno ai tre stadi della vita. Così, il grande drammaturgo norvegese, conterraneo di Fosse, è messo in rapporto con l’universo femminile nella sua intimità domestica.

Gustav Klimt Le tre età della donna (1905)

Lo sguardo, però, è quello di Suzannah. In un accenno di salotto borghese, le tre donne aspettano Ibsen per cena ed è questo il loro pretesto per raccontarsi e raccontare i risvolti di quello che vuol dire essere «la moglie di»: una vita nell’ombra, in disparte, fatta di attese e di rassegnata accettazione degli errori di un uomo tanto complicato quanto infelice. È una femminilità fragile e piena di solitudine calata in un contesto prettamente maschilista, lo stesso che Ibsen criticava fortemente nel 1879 nel suo capolavoro Casa di bambola, suscitando polemiche talmente accese per l’epoca da far proibire la sua messa in scena in numerosi Paesi.

La regia di Thea Dellavalle entra nelle pieghe delle dinamiche familiari riuscendo a creare atmosfere di grande intensità, grazie anche alla scrittura di Jon Fosse, che è lasciata intatta nella sua potenza: è una scrittura scarna, piena di pause, silenzi, che nella ripetizione e nella scomposizione della parola ha il suo tratto caratteristico, dove il linguaggio quotidiano apparentemente semplice rivela latente un sottotesto enigmatico che si mescola con il poetico. Impossibile non vedere l’ombra di Beckett, ma anche quella di Pinter: si tratta, infatti, un linguaggio che scava nel profondo delle tensioni più nascoste dell’animo umano.

Foto di scena ©Riccardo Salari

Anche in scena la solitudine è palpabile: le attrici si sfiorano ma interpretano il proprio monologo in solitaria, inconsapevoli della presenza delle altre, ricongiungendosi soltanto nella cena finale che consumeranno loro tre insieme. Disegnano una geometria di movimenti che si incastra perfettamente con le parole, creando così un quadro onirico e impossibile nella realtà, eppure, proprio per questo, portatore di verità scenica. Le attrici sono abili nel conferire sfumature e ritmi di recitazione diversi a seconda dell’età: la Suzannah più giovane (Barbara Mazzi) è ingenua ed euforica, la Suzannah matura (Irene Petris) è più morbida e consapevole, mentre la Suzannah anziana (Bruna Rossi) è dura e tagliente, ed è il personaggio più struggente perché quello che si avvicina inevitabilmente al declino.

Come il linguaggio di Fosse torna sui suoi passi, così alla fine anche lo spettacolo torna all’origine—come il silenzio: talmente denso e rarefatto che anche l’applauso del pubblico tarda a scattare, quasi per paura di perdere quell’attimo intenso che racchiude molto più delle parole.

Teatro India, Roma – 24 febbraio 2015

In apertura: foto di scena ©Riccardo Salari

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