Da Kate Moss a King Kong
La donna anarchica di Despentes secondo Ariel dei Merli
In Elle, il nuovo film di Paul Verhoeven, la protagonista Isabelle Huppert, dopo essere stata violentata da uno sconosciuto, fa un bagno caldo e ordina del sushi. In King Kong theory, Virginie Despentes scrive: «Ho fatto l’autostop, sono stata stuprata, ho rifatto l’autostop».
Sono, queste, due opere che si soffermano sulla violenza sessuale – evento traumatico così terribile da essere rimosso ancora prima di essere elaborato – da un punto di vista anticonvenzionale, anche se in modalità del tutto diverse. Se in Elle, infatti, il proseguimento della vicenda ha meno a che vedere con istanze femministe quanto più con un’impietosa parodia della borghesia, in King Kong theory, nel rifiuto della protagonista di essere considerata una vittima, il femminismo c’entra eccome, visto che l’autrice ne rappresenta una delle esponenti più radicali.
È proprio alle opere e al pensiero controverso di Despentes – una vita segnata a sua volta dallo stupro e dalla prostituzione, prima di diventare regista, critica di film porno e scrittrice cult – che Francesca Manieri e Federica Rosellini, in arte Ariel dei Merli, si ispirano per King Kong Girl, spettacolo che vuole tradurre in scena quella libertà estrema e ardita di cui la scrittrice francese si serve per aprire nuovi spazi di riflessione sulla sessualità e sulla donna, rimettendone in discussione il ruolo all’interno della società. Un ruolo che va ben oltre l’imperativo di “donna attraente e di successo” per abbracciare ogni declinazione della femminilità, comprese quelle più taciute e marginali. «Mi sento più King Kong che Kate Moss», scrive Despentes, e in un certo senso, sulla scena di Carrozzerie n.o.t troviamo entrambe, ovvero lo scarto che le divide.
Tutto parte allora da Virginie: è la stessa Despentes, adolescente e ribelle che percorre in autostop la sconfinata terra-madre Virginia, che deve il suo nome alla «Regina Vergine» Elisabetta I. Virginie si sdoppia, poi, nella «bionda» di King Kong e nella sua controparte irrazionale, la donna-bestia con la maschera di scimmia: ora orso legato davanti al Globe Theatre elisabettiano, ora Kong assediato dagli aeroplani sull’Empire State Building.
Ogni filo per associazione s’intreccia ad altri (in modo ancora un po’ confusionario), ogni attrice (Elvira Berarducci, Dacia D’Acunto, Barbara Mattavelli, Ilaria Matilde Vigna – la migliore in scena per interpretazione e carisma) reca con sé immaginari diversi compresenti sul palco. Anche se, a ben vedere, c’è sempre e solo un’unica grande entità femminile sfaccettata nei suoi molteplici aspetti – dal manifesto al represso, dal sensuale al mostruoso – e segnata dall’esperienza della violenza che sancisce, inevitabilmente, un «prima» e un «dopo».
Così, questi diversi filoni narrativi, o meglio, evocativi, si susseguiranno senza mai incontrarsi veramente in una serie di scene in cui la parola – lirica, cruda o sessualmente esplicita – lascia ampio spazio al silenzio e all’espressione del corpo, grazie a una regia che, a partire da pochi oggetti simbolici, lavora per costruzione di immagini vivide e suggestive in cui un elemento ripetitivo o perturbante contribuisce a provocare la sospensione della consequenzialità. Sono quadri ancora acerbi, alcuni più riusciti di altri (come le esilaranti interazioni fra la «bionda» e la «bestia» che diventano una brillante vivisezione della coppia) e che devono trovare maggiore organicità; ma è proprio nei difetti, nelle intuizioni ancora in nuce, come anche nella responsabilità di assumersi dei rischi, che la compagnia dimostra un’autentica volontà di sperimentazione ed esplorazione della propria poetica che possa andare oltre l’estetica del rassicurante «prodotto ben confezionato».
Attraverso lo sguardo sensibile e affilato di Manieri e Rosellini, in King Kong Girl si afferma così che tutto è possibile, o come direbbe Paul B. Preciado, che «l’inimmaginabile è inevitabile». È possibile allora immaginare una nuova concezione di femminilità: anarchica, non ascrivibile a nessun modello prestabilito; è possibile entrare in contatto con gli aspetti più intimi e inconciliabili della propria sessualità, come anche fare dell’ironia sulla pornografia. E certo, cosa più importante, è possibile che la violenza non renda necessariamente vittime o complici ma che possa diventare uno strumento di feroce autoaffermazione. Con una maggiore consapevolezza, questo grido di libertà potrà diventare ancora più udibile.
(Foto di scena ©Ariel dei Merli)