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Il primo giorno di una cosa nuova

Guardavo con attenzione le scarpe di ogni donna.

In quella settimana l’unica cosa che sembrava catturare la mia attenzione durante le frequenti passeggiate che facevo erano proprio le scarpe.
Le aspettavo uscito da un negozio, svoltato l’angolo, pagato il conto del negozio.
I miei occhi si muovevano in quella direzione senza aspettare chissà quale comando.
Cercavo qualcosa.
E anche se i piedi non sono mai stati la parte che più mi attirava in una donna, quel qualcosa che cercavo partiva proprio da lì.
Dai piedi. Da quelle scarpe.
Avevano qualcosa di particolare. Forse era il loro essere così trasandate, così lasciate andare con quella particolare cura con cui si tratta un paio di scarpe da ginnastica.
Bianche. Di un bianco sporco della polvere della strada. E poi. Un po’ di viola. Qua e là, tra le linee curve della marca, una striscia sottile che girava tutto intorno.
Pensavo, la prima volta che le vidi, ad un passaggio di un romanzo.
Un prete interroga un ragazzo sui nomi delle varie parti dei suoi stivali.
Mi aveva stupito tutta la lista che era seguita. Stupito e annoiato.
Nomi su nomi, segreti su segreti, scoperte su scoperte.
E’impressionante quanto ogni piccola cosa valga da sola l’infinito di un senso che varia a seconda di quello che abbiamo da dare nel guardarla.
Ogni cosa ha un suo nome. Ogni piccola cosa.
Pronunciare quei nomi è il segreto che svela.
Quelle scarpe, lasciate lì nel pianerottolo, avevano su di me lo stesso effetto di una pietra lanciata in acqua.
Cerchi concentrici che sembrano non svanire mai nella profondità del pensiero.
Una superficie liquida che scorre espandendosi ad ogni crepa.
La immaginavo. Così. Da tutto quello che di lei avevo trovato.
Un paio di scarpe da ginnastica.

Ero finito in quel paese tra l’Italia e la Francia. Così temerario nel suo porsi come ponte tra montagne e mare, così preziosamente colorato nel suo splendente apparire che il suo interno si svela solo con la leggerezza del pensiero.

Dovevo finire il mio romanzo. Era il secondo, il primo aveva avuto un discreto successo e adesso la mia editor, per non vanificare l’anticipo, mi aveva dato le chiavi della sua casa al mare, una sera in cui annegavo l’ennesima pagina bianca in una festa noiosa di aperitivi e chiacchere frivole tra i locali del centro storico.
“Hai bisogno di stare da solo per un po’, in un posto senza troppe distrazioni”.

Appunto.
Le scarpe.

Ero qui da una settimana, la mattina mi svegliavo presto, leggevo qualcosa a letto, un’abitudine presa durante l’anno che, per frequentare l’università, mi ero trasferito in un’altra città.
Mi piaceva svegliarmi presto e imparare a conoscere quella città dai rumori del risveglio.
Il primo tram, le colazioni e le docce degli altri inquilini del palazzo dai muri sottili.
Le macchine che non scattavano subito al verde e le sentivi partire lente. Le saracinesche che faticavano a liberarsi del lucchetto.
Una città è anche il suo risveglio.
E io piano piano cominciavo a capire le dinamiche che regolavano la mia via e solo dopo un po’, con tutti quei suoni come colonna sonora, cominciavo a leggere.
Scorreva tutto. I rumori che piano piano aumentavano e diventavano più frenetici, le prime voci, i primi clacson.
E le parole degli scrittori che amavo scorrevano ancora più veloci, ancora più forti.
Rinvigorite da tutto il mondo che respirava intorno alla pagina e cominciavo così a capire anche il verso della giornata.
E’ qualcosa di improvviso, che quasi neanche ti accorgi che sia successo fino alla sera, quando ti sembra che quella parola che hai letto tra tante altre ha scandito l’approccio a tutto quello che è successo durante il giorno.
Leggere al mattino è lasciare ad uno sconosciuto il potere di cominciare la tua giornata.
Successe così anche quel giorno, ma mi ricordai la frase solo mentre mi coricavo per andare a dormire.
Dopo che tutto era successo.

Avevo fatto colazione leggendo il quotidiano locale e avevo cominciato a scrivere.
Il romanzo era a buon punto, lavorai tutto il giorno e solo dopo le sei uscì per fare una passeggiata.
Le scarpe non erano sul pianerottolo.
Le vedevo al mattino presto quando uscivo per comprare il giornale e la sera quando rientravo dopo una passeggiata notturna.

Chissà come era. Come si muoveva scalza in quella casa. Come era il suo corpo nudo sotto le coperte.
Era il suo corpo che volevo conoscere.
Volevo dare una fisicità a quella malinconia che mi invadeva ogni volta che guardavo le scarpe e la porta chiusa.
Volevo trovarla solo per capire i miei pensieri.
Era tutto lì.
Quella cosa aveva svelato un’infinità di cose e volevo conoscerne almeno qualcuna.
Camminavo.

E poi.
L’ho incontrata che tutti i negozi stavano chiudendo, le luci sulla collina si accendevano e la notte timida era scesa a svelare la luce dei lampioni.
C’erano anche le scarpe.
La seguiì che andava a fare la spesa. La guardavo e cominciavo a capire un po’ di più di tutta quella malinconia.
La guardavo con un sacchetto della spesa in una mano e una sigaretta nell’altra che aspettava un’amica per un veloce aperitivo.
Sorrideva molto.
L’ho vista lasciare le scarpe sul pianerottolo ed entrare in casa.

E solo dopo che ero a letto, mi venne in mente la frase che avevo letto al mattino e che si era insidiata nei miei pensieri durante tutta la giornata.
Ripetevo la frase, tornai a rileggerla, e solo lì riusciì a capire la mia malinconia.
Ma non mi ricordavo più che volto avesse la donna delle scarpe.


Grazie


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