PSU1330684555PS4f50a28b7a967-1-300x300

Hanno ucciso un robot – The Walrus

Sarà la mia ostinata fissazione per le band emergenti nate e cresciute in suolo toscano, sarà la mia ostinata fissazione per le band emergenti nate e cresciute laddove si respiri l’aria salmastra, sarà che quando ho scoperto i The Walrus ho trovato la sintesi di tutte le mie ostinate fissazioni…

«Io non ho lasciato il mio cuore a San Francisco. Io ho lasciato il mio cuore sul porto di Livorno» così celebrava la sua adorata città Piero Ciampi, e ancora dopo anni, percorrendo i vicoli bui che vanno verso la banchina, si sente il sospiro degli emigranti, il gusto salato delle acque dell’Atlantico, ma Livorno è sempre lì, immobile, pronta a riabbracciare i suoi artisti, ad essere uno degli scenari preferiti del cinema italiano.

Immaginate quattro amici che si conoscono sui banchi del liceo: sono Giorgio, Francesco, Dario e Alessio. Non vivono semplicemente la routine della loro città, non si fermano a guardare le navi che lasciano il molo, una sinfonia trasportata dal vento riecheggia, chitarre, tastiere, basso e batteria, e il sapore di salsedine ad inumidire le labbra. La voce di Giorgio Mannucci si confonde con il timbro di Marta Bardi, un armonioso contrasto femmineo che si lascia guidare e guida le note che compongono il secondo album della formazione labronica.

Undici tracce che entrano in testa con una leggera immediatezza pop, una sbalorditiva capacità di scalfire le barriere del suono, ascolto dopo ascolto, a colpi di umidi vapori musicali: ecco come si presenta in sintesi brevissima Hanno ucciso un robot, il disco uscito per Garrincha Dischi lo scorso 27 gennaio.

A distanza di quattro anni dal primo lavoro, Never Leave Behind Feeling Always Like a Child, passano al lato oscuro del cantautorato made in Italy. Si dedicano a “sciacquare i panni in Arno”, ma sfoderano uno stile che risente delle influenze britanniche, con il Tamigi e i suoi affluenti nel cuore.

Già dal primo brano, Macchina volante il ritmo si dimena, scandito da una pianola, un suono meccanico che si sposa perfettamente con la purezza vocale di Giorgio, che solo dal ritornello s’incontra con il fiato lieve di Marta. Le parole colano come gocce di rugiada, dallo stelo di una rosa bianca alla terra bruna. «Posa il terrore in un caffè e apriti come faceva Voltaire» qualcosa mi ricorda i Baustelle nella loro Baudelaire, non solo per il richiamo ai volti noti della cultura moderna, ma soprattutto per quella mescolanza di temi alti e bassi, di echeggi femminili e maschili, il tutto portato ad una sintesi perfetta, senza sbavature.

Segue a ruota quello che sarà il nuovo singolo: un Così diverso stereotipo del pezzone che fa fare la grana. Pur mantenendo la sua componente pop, è plasmato per essere ascoltato e riascoltato senza sfinimenti, un testo che non ti aspetteresti di leggere e di canticchiare per strada, «Lavarsi le mani con la candeggina pura, con l’adrenalina. Mia cara adesso partiremo per un viaggio lontano alla ricerca dei pirati spioni che il tesoro mica l’hanno trovato!». Onirici e distaccati al punto giusto, con una buona dose di peterpanismo che non guasta mai.

Strabiliante l’effetto sonoro della voce di Marta in Specchio, dove si insinua con una potenza stratosferica a contatto con assoli chitarristici e un ritmo sempre più incalzante, alleggerito da un brioso quanto flebile sussulto di Giorgio che chiede ad un uditore del pubblico “Portami del tè mediorientale”.

Più o meno a metà album una deflagrazione improvvisa, quella che vorrei chiamare la guest track, un po’ perchè personalmente è la mia preferita, un po’ perché è effettivamente il brano che più si presta alla sensibilità di un ascoltatore che voglia trovare spunti per una critica minuziosa. Una notte come tante altre, vino a profusione, amici, chiacchiere, e poi come illuminata da una luce divina, entra in punta di piedi dalla porta principale la Signorina Delirio. Dietro di sé lascia una lunga scia di profumo che si mescola ai vapori dell’alcool, all’allegria, ad una densa sensazione di smarrimento come uno schiaffo sul viso. La protagonista di questa canzone, come poi in parte delle altre tracce, è quell’irrazionale ed insana voglia di fare a botte con se stessi per rinascere più vivi che mai, ovviamente sempre accompagnati da una ciurma di fedelissimi amici.

I testi dell’ultimo sforzo dei nostri Trichechi si rifanno ad un mondo decisamente alla portata di tutti. Semplici, seppur incantevoli, ancora avvolti in un cellophane che li difende dai riflessi del sole. Nulla di straordinario, nessuna prodezza fuori dal comune, solo un’incredibile e disincantato sguardo sulla primavera giovanile. D’altronde non si nasce vecchi, e loro l’han capito bene. Mani in tasca, con la calma piatta che può riservare solo il mare in luglio, si godono lentamente ciò che gli riserva il cammino, non ci sono pretese, e neppure forzature. Non li vedremo a Sanremo (Dio ce ne scampi e li salvi da un tale castigo!), ma state pronti, qualcosa mi dice che non li sentirete suonare solo nel circolo Arci sotto casa.

Grazie


Per 15 anni Paper Street è stata una rivista on-line di informazione culturale che ha seguito con i suoi accreditati i principali festival europei di cinema e musica: decine di collaboratori hanno scritto da tutta la penisola dando vita ad un archivio composto da centinaia di articoli, articoli che restano a disposizione di voi lettori che siete stati un numero incalcolabile nonché il motivo per cui, per tanto tempo, abbiamo scritto con passione per questo progetto editoriale che ci ha riempiti di soddisfazioni.

This will close in 30 seconds