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Cronache dal lido #3 – Venezia 77

L’atteso connubio tra Pedro Almodóvar e Tilda Swinton si presenta a Venezia all’insegna di Jean Cocteau. La voix humaine, il testo teatrale, datato 1930, dell’artista francese aveva già avuto delle sortite cinematografiche in passato, sempre con Almodóvar, ispirandolo per Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), ma prima ancora con Rossellini che nel film L’amore (1948) ne affida l’interpretazione ad Anna Magnani, senza dimenticare Voce umana (2014) trascurato corto di Edoardo Ponti con protagonista la madre Sophia Loren. Com’è logico aspettarsi, il regista spagnolo innesta perfettamente il testo al suo cinema, trovando in Tilda Swinton un’interprete che ottimizza, in modo naturale, i caratteristici e affascinanti effetti visivi del suo stile. È lei la donna lasciata, la donna che attende la telefonata dell’ex compagno, in un appartamento/teatro dove libri, dvd, tendaggi e pareti dai colori accesi si rincorrono in uno scenario composito e creativo. La Swinton vi si aggira dominando ogni umore e parola nel suo dialogo con l’ex al telefono, passando dal tenere un’accetta in mano al maneggiare auricolari bluetooth, dall’innaffiare i fiori al cospargere la casa di benzina. Se non c’erano dubbi su una prova impressiva da parte dell’attrice britannica, quello che più balza agli occhi in The Human Voice è il cromatismo di Almodóvar, sempre più funzionale ed efficiente nel racchiudere ogni attimo scenico, nel condensare formalmente la perfezione delle sue scelte registiche. Ma il fatto più importante, in fondo, è vedere lavorare assieme per la prima volta Almodóvar e la Swinton, due figure del cinema contemporaneo che si sono sempre contraddistinte per scelte audaci e innovative. (Giulia Angonese)

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Martha (Vanessa Kirby)  e Sean Carson (Shia LaBeouf) sono una giovane coppia di Boston alle prese con i comuni problemi di reciproca incomprensione che affliggono molte relazioni. Un evento drammatico, la perdita della bimba appena nata durante un difficile parto in casa, li costringerà a rimodellare profondamente le loro vite. Martha dovrà decidere se seguire i consigli di sua madre (Ellen Burstyn), che la vorrebbe indurre a procedere legalmente contro l’ostetrica responsabile del parto, o tentare di dimenticare la tragedia per ricominciare a vivere. In un anno in cui la Mostra del Cinema di Venezia, già in queste sue prime battute, sembra tornare spesso sui temi del lutto e della sua elaborazione, Pieces of a woman dell’ungherese Kornel Mundruczo su questa traccia regala la prima grande sorpresa del concorso. Alla sua prima produzione in lingua inglese, il regista insieme alla moglie Kata Weber sceglie di prendere spunto da una dolorosa vicenda personale per tratteggiare un magnifico ritratto femminile, reso con vivida potenza espressiva da una splendida Vanessa Kirby. Pregno di umanità tanto da omaggiare già nel titolo un campione di umanesimo cinematografico come John Cassavetes, Pieces of a woman trasfigura la più intima e privata delle vicende in un racconto morale privo di ogni moralismo. Ogni perdita, anche la più dolorosa, racchiude dentro di sé il germe della rinascita: basta saperlo riconoscere nelle pieghe della realtà minuta che ci circonda, pronto a rivelarsi come un negativo fotografico in attesa di sviluppo. La padronanza del mezzo espressivo che esibisce il regista, dopo una serie di precedenti esperienze dietro la macchina da presa non sempre memorabili, stavolta è di assoluta evidenza, sostenuta da un importante sforzo produttivo che annovera, tra i capofila dell’operazione, Martin Scorsese. La lunga scena del parto, girata in un unico piano sequenza e di devastante impatto emotivo, è il primo grande momento di cinema di questa Mostra, tanto da candidare il film di Mundruczo tra i favoriti per il palmares. (Stefano Lorusso)

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