Quo-Vadis-Aida

Cronache dal lido #2- Venezia 77

Srebrenica, Luglio 1995. Le truppe dell’esercito serbo capeggiate dal generale Mladic invadono la cittadina bosniaca, seminando terrore tra i residenti. Una base militare delle Nazioni Unite cerca di offrire rifugio a centinaia di famiglie in fuga. Tra questi ci sono il marito e i due figli di Aida, l’interprete del campo che, con coraggio e determinazione, coordina le operazioni di salvataggio. Difronte alle minacce di un pericolo sempre più incombente, i Caschi Blu, di fatto privi di qualsiasi autorità, non riescono ad opporre alcuna resistenza a quella che si preannuncia come una vera e propria deportazione di massa. Quando la situazione la costringerà a vivere il più doloroso dei distacchi, Aida troverà la forza di resistere grazie alla sua integrità di moglie, madre e maestra. Girato da una sopravvissuta alla guerra in Bosnia nata a Sarajevo nel  1974 e in concorso a Venezia 77 , Quo Vadis, Aida? è un film che racconta la storia di una donna costretta a giocare un gioco (al massacro) in cui le regole sono scritte dagli uomini. Notevole per la sua intensità espressiva, l’attrice protagonista Jusna Duricic è alle prese con un ruolo non semplice che sostiene su di sé il peso dell’intero film. Sebbene privo di un segno stilistico forte e appesantito da alcune scelte espressive poco felici soprattutto nella parte finale, è un’opera che ha il merito di riaccendere i riflettori su una pagina di storia da anni condannata alla lateralità, un eccidio minore soltanto perché consumato lontano dalle grandi capitali occidentali. Se la rappresentazione delle milizie serbe è prevedibilmente declinata nel segno della disumanità più assoluta, il j’accuse più forte ed interessante è riservato dal film alle alte gerarchie delle Nazioni Unite, imbrigliate in una catena di comando burocratica che ne paralizza ogni reazione. (Stefano Lorusso)

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Il mattonificio di un’isolata, desolata e secca terra dell’Iran può raccontare molto, moltissimo sul legame, sempre attuale, tra la vita, il lavoro e la fatica; e può farlo con una forza maggiore rispetto a altre scenografie celebrate dal cinema moderno. Loftollah (Ali Bagheri) vi lavora da trent’anni e più, sorvegliandolo, caricando i camion, accendendo la fiamma per il forno dove verranno cotti i mattoni, mediando tra il padrone e gli altri lavoratori. Sono frequenti infatti le lamentele per le paghe troppo basse e per il caldo insopportabile, così come le liti tra gli operai, spesso di etnia diversa. Arriva però il momento in cui il padrone riunisce tutti per comunicare la chiusura definitiva della fabbrica. Loftollah non si chiede cosa ne sarà della propria vita, continua il suo rituale lavorio quotidiano: chiama a raccolta i lavoratori, tranquillizza chi inizia ad agitarsi, sostituisce al lavoro Sarvar, la donna di cui è innamorato, accennando al padrone la possibilità di vivere con lei in città nel prossimo futuro. Passa le ultime ore nel mattonificio, il suo unico luogo di vita e di lavoro, così, instancabilmente all’opera, concedendosi per poco il lusso di avere anche lui un’alternativa. Circondato dai mattoni, ai quali dovrà fare da guardia per un’ultima notte, Loftollah sceglierà infine di non andarsene. A Venezia per la sezione Orizzonti, il film di Ahmad Bahrami avrebbe meritato di essere in concorso: girato in bianco e nero, va dritto all’essenziale, lasciando parlare la forma ripetitiva dei mattoni, i rituali di Loftollah, i pranzi tradizionali delle famiglie operaie perché è in quelle forme modellate a mano, in quei frangenti di tempo commovente che sono passate fatiche umane, lacrime, vite. Se quello che si chiede al cinema è di saper raccontare una storia e attraverso di essa conoscere e ricordare un’altra parte del mondo, The Wasteland è la risposta migliore che ci si possa aspettare. (Giulia Angonese)

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Sharad Nerulkar è un giovane che dedica tutta la sua vita allo studio della musica classica indiana. La conoscenza della tradizione Anwar e del suo complesso retaggio musicale assorbe ogni sua energia, condizionandolo anche nelle scelte di vita. Giunto quasi ai quarant’anni, non si è ancora sposato, non ha altri lavori e tutte le sue attenzioni sono rivolte all’anziano maestro di musica. L’amore per la musica tradizionale indiana vive dentro di lui nel ricordo del padre scomparso, dedito per tutta la vita alla ricerca e allo studio in ambito musicale. Molti sono i sacrifici che questa strada di conoscenza richiede, come riportano le registrazioni di una anziana maestra che il giovane ascolta per trovare ispirazione nel suo percorso. Determinazione, costanza, rinunce sono richieste da questa sorta di manuale del bushido per diventare un perfetto esecutore di “rag”, i lunghi vocalizzi improvvisati tipici della tradizione musicale indiana: un prezzo molto alto, che Sharad dovrà decidere se pagare fino in fondo. Dopo aver vinto il premio per la miglior regia nella sezione “Orizzonti” alla Mostra di Venezia nel 2014 con il suo lungometraggio d’esordio Court ed essere entrato nelle grazie di Alfonso Cuarón con cui ha svolto un progetto di formazione internazionale, Tamhane Chaitanya torna in concorso nella sezione principale di Venezia 77 con un monocorde racconto di formazione, dalla confezione tanto prevedibile quanto deludente. Costruito intorno alle lunghe esecuzioni musicali tipiche della musica tradizionale indiana (voce, sitar, tabla), già intrinsecamente  basate sulla iterazione e sul loop, il film procede senza sussulti e senza alcun ritmo verso un finale che lo riscatta solo in minima parte. Denso di riferimenti allo scenario musicale nazionale, non facili da conoscere per il pubblico internazionale, The disciple si segnala come un prodotto medio, destinato inevitabilmente ad avere maggiore fortuna di pubblico nel mercato interno. (Stefano Lorusso)

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