Delirio di una trans populista – Teatri di Vita
Un pezzo dedicato a Elfriede Jelinek
Voci amplificate, come da un megafono in un comizio, dirigono i passi incerti dello spettatore nell’oscurità dei Rimessini, spazio aperto della Pelanda. Tra balle di fieno e recinti dell’ex-mattatoio, le voci fluviali di Delirio di una trans populista – Un pezzo dedicato a Elfriede Jelinek si riversano sull’incertezza di un pubblico che non sa precisamente quale posto prendere dinanzi al frastuono di una scena vuota.
Così la regia di Andrea Adriatico introduce la scrittura muscolare e spigolosa di Elfriede Jelinek, premio Nobel per la letteratura nel 2004, e del suo Addio. La giornata di delirio di un leader populista, titolo originale dell’opera. L’autrice austriaca immagina l’orazione di commiato di un capo di partito, modellato sulla figura di Jörg Haider, governatore della Carinzia morto in un incidente d’auto nel 2008 e leader del partito nazionalista Fpö (Partito della Libertà austriaco), in attesa che la sua stella torni nuovamente a brillare nel panorama della politica nazionale. Un leader omofobo, con una doppia vita e sospettato di pedofilia, che fece affiggere un manifesto in cui invitava il teatro della capitale austriaca a liberarsi di quella scrittrice che infangava i sani e onesti costumi nazionali.
L’intelligente operazione registica rovescia i punti di vista e, come in un contrappasso, gli emarginati, gli esclusi, la minoranza che il leader omofobo invita a unirsi per diventare maggioranza, anzi «tutti», sono i trans capitanati da Eva Robin’s, simbolo della trasgressione per eccellenza e icona trans gender. L’attrice, che per Teatri di vita è protagonista anche degli altri due spettacoli dedicati all’opera di Elfriede Jelinek (Jackie e le altre, presentato al Festival Orizzonti di Chiusi ad agosto, e Un pezzo per Sport che debutterà a fine ottobre al Festival VIE di Modena), in smoking e parrucca corvina entra a ritmo di polka seguita da tre giovani studenti in gonna, camicia bianca e lunghi capelli neri.
Il vaniloquio del leader, la sua retorica incalzante, i suoi lapsus contraddittori, il citazionismo straripante diventano grotteschi, paradossali nell’ironia di Eva Robin’s che dall’alto di una balla di fieno con falce e forcone: «cacceremo la fiducia via dal paese perché noi siamo forti! Chiedo scusa la porteremo.» Il sorriso, che come una maschera fissa l’espressione dei tre giovani adulatori adulati – Saverio Peschechera, Alberto Sarti, Stefano Toffanin –, diventa espediente per giocare con il pubblico, cui si fanno indossare parrucche, si distribuiscono volantini con su scritto «Vota trans» e con cui si fanno selfie.
Tra cambi d’abito e canzoni come I will survive o Parole Parole, lo spettatore viene invaso da un labirinto di parole, dalla violenza mascherata dagli stereotipi della cultura, dalla musicalità ipnotizzante delle parole che non sempre però riesce ad avere un senso, una direzione. Se le manipolazioni del linguaggio, la sopraffazione del potere, il populismo sottopelle in Elfriede Jelinek riescono a creare un universo capace di svincolarsi dalla contingenza per attingere quasi all’archetipo di ogni fascismo, qui il meccanismo drammaturgico sembra talvolta riprodurre se stesso incedendo tra improvvise accelerazioni e inevitabili cali di tensione.
Short Theatre, La Pelanda, Roma – 12 settembre 2014