Foto di scena ©Serena Serrani

‘Utoya’ e la paura del dubbio

La strage norvegese sulla scena di Serena Sinigaglia

Io non sono razzista però…

Quante volte sentiamo queste parole o le taciamo a noi stessi? Perché questa frase ci mette così a disagio? Quella premessa sospesa ci mette al riparo dalla paura offrendoci il tetto della certezza. La paura di essere razzisti, la paura di essere considerati tali, la paura del lato oscuro di cui siamo certamente fatti ma che rintuzziamo ogni giorno sempre più in fondo, lontano dalla superficie che vogliamo mostrare.

Partendo dal libro inchiesta di Luca MarianiIl silenzio sugli innocenti, Utoya – testo di Edoardo Erba e regia di Serena Sinigaglia – ha il merito di farci esplodere quella frase davanti rendendoci nudi. Questo è successo alla Norvegia appena quattro anni fa, quando il 22 Luglio 2011 due attentati colpirono il paese della penisola scandinava: il primo, davanti all’ufficio del primo ministro a Oslo, era un depistaggio per il secondo, avvenuto sull’isola di Utøya, dov’era in corso un campus della sezione giovanile del Partito Laburista, vero obiettivo politico degli attacchi.

Utøya allora diventa l’isola dei nostri timori, il recinto dei nostri non-detti, dinanzi ai quali andiamo in pezzi con tutta la cornice che ci siamo costruiti. Sebbene il sospetto islamico venisse rimbalzato da un mass media all’altro diventando subito certezza e capro espiatorio di un’intera nazione, si scoprì che la matrice era norvegese, che il terrorista era biondo, robusto, simpatizzante dell’estrema destra e figlio di un ex diplomatico della Reale Ambasciata di Norvegia.

Foto di scena ©Serena Serrani

Lo splendido Paese in cui l’uomo è in perfetto equilibrio con la natura rigogliosa e in cui si vive meglio “perché al Nord è così”, non si scopre sotto attacco straniero ma sotto il proprio stesso fuoco.  Così la ferita di tutti diventa voragine dentro ognuno, facendo uscire gli scheletri negli armadi delle tre coppie protagoniste, interpretate unicamente in scena dal Premio Ubu ’14 Arianna Scommegna e Mattia Fabris (compagnia ATIR).

Due genitori benestanti che hanno mandato la propria figlia sull’isola norvegese perché il padre di fede laburista lo ha deciso; fratello e sorella che lavorano i campi della verdeggiante Norvegia perché questo facevano i genitori; e due poliziotti incastrati dal senso del dovere e dall’ordine gerarchico, vedranno i propri castelli di carte rovinosamente abbattuti da uno di loro – di noi. Anche con stoccate al chinino, commenti sarcastici e momenti paradossali Scommegna e Fabris si (e ci) diranno quelle parole mostruose che non bisognerebbe dire e che invece verranno a galla.

Foto di scena ©Serena Serrani

Nonostante cronaca e teatro, informazione ed evocazione non sempre trovino un equilibrio drammaturgico, i rancori interpersonali, le mezze verità o le mezze bugie, le varie e stratificate ragion di Stato che si sedimentano nella storia di ogni Paese tanto da non riconoscervi più una memoria collettiva, uniscono la platea e il palcoscenico del Teatro Magnolfi Nuovo di Prato.

Foto di scena ©Serena Serrani

Ecco che allora i tanti tronchi d’albero spezzati, nelle scene immaginate da Maria Spazzi (e che rinviano al memoriale delle vittime ad opera dell’artista Jonas Dahlberg: guarda qui), immortalano anche noi: divisi tra cadaveri e superstiti, tra chi c’era senza capire cosa stesse accadendo e chi ne aspettava la fine incollato alla tv o al telefono, tra chi si accontenta di abbracciare le certezze della prima ora e chi si sforza di capire – perché ne sente l’obbligo e l’allarme morale.

Letture consigliate:
• Confirmation, l’altra faccia del male di Utøya, di Elena Cirioni

Ascolto consigliato

Teatro Magnolfi, Prato – 22 ottobre 2015

Grazie


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